Tutti i dittatori sono uguali, ma alcuni sono più uguali di altri. E, così, l’Italia e la NATO, che silenziosamente speravano nel rovesciamento del sultano nella notte del 15 luglio 2016, affidano a Recep Tayyip Erdoğan le dinamiche interne ed estere, le chiavi dell’Europa e della pace sul suo territorio. Insomma, inseguono un dittatore per rovesciarne un altro.
Ancora una volta, infatti, sarà il Presidente turco a provare la via della conciliazione tra Russia e Ucraina. A raccontarlo sono le prime pagine dei quotidiani di oggi secondo cui, nel corso della giornata, Erdoğan si confronterà telefonicamente con i colleghi Putin e Zelensky nel tentativo di offrire la mediazione di Ankara nel processo negoziale. Cosa si diranno non è ancora dato saperlo. Il punto, ora, è chi alzerà il telefono per chiamare chi.
Nell’assuefazione generale alla guerra, sia essa in Ucraina o in troppe parti del mondo in cui ancora insiste la violenza del petroldollaro, ci stiamo abituando all’idea che il concetto di mediazione passi per le mani di un dittatore. Ci stiamo abituando all’idea che mediazione significhi svendita. Perché, ammettiamolo, è di questo che si tratta. Non ci sono interlocutori, a oggi, che abbiano mai parlato di pace. Si parla di tregua, di dialogo, di compromesso, di io cedo qui, tu cedi lì. Ma di pace, di un qualcosa che possa essere più duraturo – perché no, definitivo –, non si azzarda a parlare nessuno.
Sono le persone, infatti, a mancare nel dibattito pubblico. A mancare nei discorsi di Vlodimir Zelensky, che sin dall’inizio chiede aiuti bellici e mai umanitari, o nei discorsi dell’Europa dei diritti. Sono le persone a mancare nei bollettini quotidiani, sempre più a margine dei tg e della carta stampata. Sono le persone che non sappiamo come vivono, o non vivono, sotto le bombe di una più che razionale furia conquistatrice. E sono le persone che – questo è certo – mancheranno nelle telefonate tra i leader di Paesi che guardano, ognuno, il proprio orticello. Eppure, è su di loro che si media. Il campo di gioco di un campionato per soli grandi.
È successo, ad esempio, con il tradimento dei curdi della scorsa estate, quando i Capi di Stato dei Paesi membri e partner della NATO hanno discusso dell’ingresso di Svezia e Finlandia nell’Alleanza Atlantica. Un giorno storico, per l’Europa e per il mondo intero, deciso – su tutti – proprio da Recep Tayyip Erdoğan, il tiranno che dalla guerra tra Ucraina e Russia uscirà vincitore. In occasione del vertice madrileno, infatti, il Presidente turco ha tolto il suo veto all’ampliamento dell’organizzazione internazionale a patto che i due Paesi scandinavi firmassero un memorandum che lo avrebbe avvantaggiato nella sua lotta al popolo curdo. In Turchia l’hanno chiamata la vittoria di Madrid.
Difatti, rivedendo il loro storico ruolo di pacifiste, Svezia e Finlandia si sono impegnate a collaborare per combattere il terrorismo, eliminando l’embargo sulla vendita di armi ad Ankara e garantendo l’estradizione di più di settanta terroristi. Uomini e donne i cui nomi sono comparsi sui quotidiani turchi in una lista di proscrizione fatta di giornalisti, attivisti, ricercatori universitari e insegnanti, rei – secondo il regime – di far parte del PKK, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, e di Fetö, il movimento guidato dall’ex alleato di Erdoğan, Fethullah Gülen, accusato di essere l’organizzatore del tentativo di golpe di sei anni fa.
Con il sostegno della NATO, dunque, Helsinki e Stoccolma hanno aperto le porte a una probabile nuova invasione della Siria settentrionale e orientale e a una garantita violazione dei diritti umani che, non a caso, non si sono fatte attendere. Il 20 novembre, infatti, l’esercito turco ha condotto una serie di raid contro obiettivi curdi nel nord della Siria e nel Kurdistan iracheno, causando la morte di circa trenta persone. Erdoğan ha motivato la violenza come risposta all’attentato di Istanbul del 13 novembre, da lui attribuito al PKK e alle FDS (Forze democratiche siriane) che, però, non ne hanno mai rivendicato la paternità.
Sfruttando i sentimenti nazionalistici crescenti e il malumore serpeggiante tra crisi economica, lira turca al collasso e inflazione all’85%, dunque, l’attacco in centro città si è rivelato il pretesto perfetto per passare all’azione, con lo sguardo rivolto alle elezioni del prossimo giugno. Un’occasione perfetta che ha consentito ad Ankara di puntare il dito e il fuoco soprattutto contro Kobane, avamposto curdo ed epicentro della resistenza nel nord della Siria dove, con l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca, la Turchia aveva proposto la creazione di una zona cuscinetto, tramutatasi poi in atroce trappola.
Il 20 gennaio 2018, infatti, l’esercito di Erdoğan ha invaso il nord della Siria e attaccato il cantone di Afrin, fino a quel momento relativamente al riparo dalle violenze e quindi rifugio di numerosi profughi. L’invasione, sostenuta da bande jihadiste e formazioni concorrenti legate ad Al Qaeda, ha portato alla caduta della città di Afrin, a sua volta occupata dai jihadisti filo-turchi, che hanno compiuto una serie di crimini di guerra a danno della popolazione curda. La luce verde per completare l’invasione, però, è stato il ritiro delle truppe americane del 2019 quando, per contrastare la forza del secondo esercito della NATO, i curdi hanno accettato il rientro in alcune zone degli uomini di un altro dittatore, Assad, riscrivendo la mappa mediorientale.
Da allora, Erdoğan minaccia l’Europa, che a sua volta lo riempie di soldi per impedire che apra le frontiere. Un affronto che il sultano ha concretizzato già nel 2020, in piena pandemia, per lasciar passare centinaia di migliaia di migranti in fuga. In quell’occasione, la NATO aveva rispedito al mittente la sua richiesta di intervento militare a Idlib, l’unica zona della Siria ancora sotto il controllo dei ribelli, oggi campo di battaglia dove la Turchia sta cercando di fermare l’avanzata del regime di Assad, quindi, della Russia, mantenendo, tra l’altro, un importante avamposto in chiave anti-curda. La Russia di quel Vladimir Putin con cui, nel corso della guerra civile siriana, il Presidente turco si è praticamente spartito il Paese con le conseguenze che tutti conosciamo (e ignoriamo).
Erdoğan che telefona in Russia e in Ucraina non è, dunque, una buona notizia. Non lo è la reiterata opportunità offertagli di diventare un interlocutore indispensabile, un facilitatore che, in realtà, agevola solo se stesso su un doppio fronte. Nonostante il suo Paese sia parte della NATO, infatti, il Presidente turco è l’unico a essere ascoltato da Putin, che ancora lo definisce un caro amico. Ankara è per Mosca un porto sicuro, Mosca è per Ankara un’importante fonte di peso e di denaro. Così, al centro di due fuochi, Erdoğan brucia di nuova autorevolezza sul piano internazionale, ridefinisce le proprie mire espansionistiche e, senza nemmeno alzare la voce, fa della Turchia un centro diplomatico (!) che, mentre accusa l’Europa – sta raccogliendo quello che ha seminato –, crea corridoi nel Mar Nero per il grano ucraino e non pensa di doverne creare per le vite umane spezzate lungo la rotta balcanica.
È questa, tuttavia, la mediazione che vuole l’Europa, quella che salva l’economia e dimentica gli uomini. Lo aveva già ammesso Mario Draghi, parlando di Erdoğan come di un dittatore di cui si ha bisogno. La mediazione come svendita, sia essa legata alla Crimea – come prospettano alcuni commentatori –, al gas o, magari, proprio ad altre questioni legate al Medio Oriente. Tutta geopolitica, insomma, e poca, nessuna, umanità. Quella che non c’è nelle immagini diffuse proprio in questi giorni a testimonianza della violenza che la polizia turca esercita lungo il confine, nella città di Van, dove chi è in fuga dall’Afghanistan viene spogliato, incatenato e torturato, addirittura costretto a strisciare nel gelo della neve.
Come può chi ordina sangue fare da mediatore? Come può chi non conosce pace tentare di costruirne una? A che prezzo l’Europa sta sanzionando un dittatore, foraggiando un altro e armando indiscriminatamente un popolo? Il punto è che non si sta combattendo una guerra, si stanno solo creando i presupposti per la prossima.