Dopo l’Accordo di Parigi e il fallimento di numerose nazioni nel perseguire gli obiettivi imposti in favore dell’ambiente, l’Unione Europea si ripropone di unire le proprie forze in un nuovo progetto che possa, in ultima istanza, salvare il pianeta dalla catastrofe climatica. È principalmente alla luce dei disastri di cui gli ultimi mesi sono stati testimoni che è nato il Green Deal, fiore all’occhiello della Presidente della Commissione Europea Ursula Van Der Leyen.
Si tratta di un piano che persegue la cosiddetta neutralità climatica: l’obiettivo è sostanzialmente quello di azzerare le emissioni di CO2 entro il 2050. Per adesso, si tratta solo di una proposta legislativa che prevede l’investimento di circa un quarto del bilancio europeo per de-carbonizzare il settore energetico e passare a un’industria ecologica. Al contempo, prevede anche di non penalizzare chi lavora nei settori a rischio, cercando di riqualificare i lavoratori e creando nuovi impieghi green. Quello rivolto al 2050, però, è sicuramente un obiettivo a lungo termine, per questo a metà strada è stato prefissato un passaggio intermedio secondo cui le emissioni dovranno essere ridotte del 40% rispetti ai livelli del 1990 entro il 2030.
Lo scopo principale è quello di essere i primi, a livello mondiale, a passare all’industria verde attraverso quella che hanno chiamato una transizione equa che garantirà un aiuto economico a tutti i membri dell’Unione. La distribuzione dei fondi, però, dipenderà dall’intensità dei problemi dei singoli Paesi, con somme maggiori da dedicare alle regioni più inquinanti che dovranno affrontare una più radicale conversione energetica. Si tratta di Stati che basano la propria economia sull’impiego del carbone, mentre a luoghi come l’Italia saranno destinate cifre minori – probabilmente si parlerà di alcune centinaia di milioni.
Il piano si articola in vari punti: il più consistente riguarda l’abolizione dell’impiego di carbone all’intero dell’industria energetica poiché è proprio la produzione di energia a gravare maggiormente sulle emissioni, costituendo il 75% del totale. A questa fondamentale transizione, si aggiungono la ristrutturazione degli edifici, che assorbono il 40% dei consumi energetici europei, e un aggiornamento nei sistemi di trasporto pubblico e privato, che attualmente rappresentano il 25% della produzione di CO2. In più, si prevede anche un programma per combattere l’inquinamento legato alla produzione di alimenti.
Il Green Deal, per ora, è solo un progetto, la cui approvazione è ancora molto lontana e certamente non incontrerà i favori dei Paesi che basano le proprie economie principalmente sull’industria del carbone. In particolare Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria dovranno affrontare i cambiamenti più radicali e le ingenti somme previste non renderanno certamente la transizione indolore.
In realtà, sono numerosi i dubbi nati intorno alla proposta, sia riguardo la sua effettiva messa in pratica sia nei confronti delle intenzioni dei suoi promotori. Ci si chiede, prima di tutto, se non sia pensata per risollevare l’industria europea e renderla molto più competitiva sul mercato globale, travestendo gli investimenti come sacrifici necessari per salvaguardare l’ambiente. Ma, anche se potessimo appurarne le buone intenzioni, l’obiettivo che il Green Deal si pone è molto difficile da raggiungere. In effetti, il piano si propone, almeno sulla carta, uno scopo necessario, indispensabile. Perché dopo anni di negazionismo, di politiche convinte che l’azione umana non avesse il potere di cambiare il clima o l’ambiente, stiamo concretamente raggiungendo il momento in cui sarà troppo tardi perché le nostre azioni ci permettano di correre ai ripari. D’altro canto, non coinvolgerà solo l’industria in generale, ma tutta la popolazione.
Probabilmente il più grande cambiamento che dovremo affrontare riguarderà il consumo. Che si tratti della frequenza con cui si utilizzano mezzi di trasporto privati o sull’impiego della plastica, ogni cittadino europeo sarà chiamato a fare la sua parte. Nonostante tra gli obiettivi del deal compaia la necessità di modificare e migliorare i sistemi di trasporto, presumibilmente saranno adottate misure restrittive sull’utilizzo di mezzi privati, soprattutto se ad alto livello di inquinamento e sarà fortemente incoraggiato lo sharing. Anche l’alimentazione sarà soggetta a cambiamenti: è impossibile attuare il Green Deal se l’alimentazione biologica non si impone sul mercato.
Indicata dal motto dal produttore al consumatore, la produzione bio non comporta solo l’eliminazione di pesticidi, ma il conseguente ri-adattamento ai prodotti stagionali, la necessità di non acquistare prodotti provenienti da lontano – difficile dire se inquina di più una bottiglia di plastica o l’anidride carbonica emessa per trasportare frutta esotica – e una consistente riduzione degli alimenti più inquinanti o che necessitano di maggior consumo d’acqua – alcuni ortaggi, ma soprattutto carne.
L’intera industria alimentare muterà i connotati e questo aspetto comporterà notevoli cambiamenti anche per i produttori, che dovranno reinventarsi e adattarsi di conseguenza. È anche vero che il successo del Green Deal avrebbe un impatto positivo a livello globale, comportando la necessità di adattamento agli standard europei di tutti i Paesi produttori che vorranno competere nel nostro mercato ma, indubbiamente, presentare la proposta come un’enorme opportunità economica, e non come una necessaria e difficile transizione, accende dubbi sulla trasparenza di un progetto ancora lontano dall’essere approvato.
La transizione verso la neutralità climatica, dunque, non comporterà solo costi economici, ma anche cambiamenti sociali. Molti aspetti della vita quotidiana dei cittadini europei verranno messi in discussione e ognuno sarà costretto a rivedere il proprio modo di consumare, di impiegare l’energia e anche il modo di mangiare. Tutto in vista di un obiettivo finale – azzerare le emissioni – tanto lontano quanto necessario. E allora aveva ragione il Vicepresidente della Commissione Europea quando, presentando il piano, dichiarava che non possiamo fallire. Probabilmente le sue parole si riferivano all’inattaccabilità della strategia, all’equa ripartizione dei fondi. Ma, forse, più che impossibile, il fallimento si rivelerebbe tragico perché quello entro il 2050 è l’obiettivo ultimo, il tentativo estremo di mantenere ancora il potere di cambiare le cose.