A Marta Cartabia, neo Ministra della Giustizia per il governo Draghi, spetterà un compito arduo: tenere le redini di un ministero su cui le forze politiche – adesso in comunione di intenti – sono da sempre molto divise. Portare avanti le necessarie riforme che il tema richiede, dunque, non sarà affatto facile.
L’ex Presidente della Corte Costituzionale – prima donna ad aver ricoperto tale carica dopo otto anni da giudice e vicepresidente – può considerarsi l’unico vero tecnico del governo, nonostante le iniziali premesse del Capo dello Stato Sergio Mattarella. Eppure, il suo curriculum e la sua professionalità non possono escludere derive autoritarie né una stasi dovuta a disaccordi insuperabili. Basti pensare che, nella sua carriera, Cartabia ha sempre mostrato particolare attenzione al tema carcerario e alla necessità di una pena umana, che non fosse vendetta. Una posizione che risulta difficilmente conciliabile con le idee giustizialiste di Lega e MoVimento 5 Stelle, il cui mantra – gettiamo le chiavi – è di tutt’altra natura.
Pur trattandosi di un Governo “senza opposizione”, le forze politiche in campo sono molto diverse tra loro e nessuna si è mai dimostrata particolarmente progressista in ambito diritti. Dunque, ci pare plausibile ipotizzare che non assisteremo neppure stavolta a uno slancio verso la civiltà. La stessa neo Ministra, pur mostrando particolare empatia nell’affrontare taluni argomenti, ne ha manifestata molta meno in altri, come nel caso delle unioni civili e della strenua difesa della famiglia tradizionale, contraria anche ad aborto ed eutanasia, probabilmente influenzata dalla religione e dalla sua partecipazione a Comunione e Liberazione. Insomma, pur avendo preso parte in maniera rilevante in organizzazioni che si occupano di diritti – ad esempio il Network of Indipendent Experts on Fundamental Rights della Commissione Europea – l’ex presidente della Corte Costituzionale risulta fortemente sbilanciata a svantaggio di minoranze che necessiterebbero, invece, di ben altro sostegno.
Nello specifico, nell’affermare che la Costituzione tutela la famiglia tradizionale, Cartabia fa un’interpretazione eccessivamente restrittiva di un testo che risale a molti anni fa e che conserva una grande forza innovatrice se letto in maniera progressista. Inoltre, quando parla di un volto umano da attribuire alla giustizia e alla pena, non può dimenticare che esso deve necessariamente essere laico, così come lo è – almeno teoricamente – il nostro Stato. Perché se la religione può avere un ruolo preminente nella vita personale di ognuno, non bisogna lasciare che essa guidi scelte politiche che incidono sulla quotidianità di un’intera popolazione. Si comprende, quindi, la preoccupazione delle organizzazioni umanitarie e della società civile che temono un arretramento di quei diritti faticosamente conquistati negli anni, spesso ancora troppo in bilico.
A ciò si aggiunga che il nuovo governo è espressione di una destra populista spaventosa e che taluni Ministeri in particolare rischiano di far regredire l’Italia più di quanto non l’abbia già fatto nelle ultime vergognose legislature. In questo momento storico, invece, la giustizia necessita di importanti riforme che riguardino innanzitutto i processi e la loro lunghezza – oramai non più ragionevole, nonostante il dettato costituzionale – l’assunzione di nuovo personale, l’implementazione di tecnologie e riforme che recuperino il tema della prescrizione e del mondo penitenziario, abbandonato a se stesso da tempo. Esprimiamo dubbi sulla possibilità che temi così complessi trovino il consenso della maggioranza e portino a riforme in tempi celeri.
Se, dunque, accogliamo con favore la presenza di un volto che ha reso innovativa la Consulta, che ha permesso la partecipazione di organizzazioni e società civile alle sue decisioni, già firmatario di sentenze storiche – tra cui quelle che hanno permesso a madri di figli disabili di scontare la propria pena ai domiciliari, prescindendo dall’entità della stessa e dall’età della prole – auspicando che possa finalmente sancirsi la fine del ricorso al carcere come unico strumento utilizzabile dal nostro ordinamento (ben al di là dei limiti costituzionali), temiamo comunque che perduri la stasi sui temi urgenti della macchina giudiziaria e che, ancora una volta, prevalga il sentimento giustizialista e di vendetta che caratterizza il nostro sistema penale e la nostra società, relegandola ai margini.
Se, infatti, si tratterà sicuramente di un Ministero in netta discontinuità rispetto a quello presieduto da Alfonso Bonafede, se non ci sarà alcun passo in avanti in tutti gli altri ambiti, compreso quelli della questione di genere, della migrazione e di una necessaria tutela delle classi più deboli, non ci si può attendere una vera svolta nel campo dei diritti. Tutte premesse che, al momento, sono inesistenti nelle eccelse menti della nuova squadra di governo.