Lo scorso 14 marzo, in occasione della rassegna Un uomo, una donna. Registi e muse nella storia del cinema, alla mediateca Santa Sofia – struttura pubblica del comune di Napoli – è stato proiettato uno dei capolavori del noto regista Jean-Luc Godard, Una donna sposata, ovvero la storia di Charlotte, una persona bizzarra innamorata di due uomini tra i quali non sa scegliere.
Un film in cui i soggetti sono considerati come oggetti, in cui gli inseguimenti in taxi si alternano a interviste etnologiche, in cui lo spettacolo della vita si confonde con la sua analisi, un film insomma in cui il cinema può sfogarsi liberamente, felice di non essere altro che quel che è.
Così il regista francese commentò la sua opera del 1964. Il titolo originale prevedeva, in realtà, l’articolo determinativo ma, estendendo il concetto di adulterio a tutte le donne, venne censurato. Si pensò bene, allora, di sostituire quella determinazione, mutando il titolo della pellicola che da La femme mariée divenne Une femme mariée.
Godard pose il frammento al centro del suo lavoro. Vediamo scorrere sullo schermo, infatti, serie di “frame”, scene spezzate, dettagli di un corpo. Le mani dei protagonisti, in particolar modo, riescono a imporsi come immagine preponderante: sovrapposte, incrociate e lontane – mentre il tutto avviene sullo sfondo di un lenzuolo – scatenano metafore collaterali. Sembra quasi che siano sufficienti a raccontare la storia d’amore che si sta consumando.
La poetica del frammento e del tempo interno è un tentativo di superare l’impasse della stagnazione e della mancanza di ispirazione che blocca buona parte della poesia moderna.
Con queste parole, Claudio Borghi sancì la dignità poetica della frammentarietà. Tale modalità diede vita a un vero e proprio genere letterario che si sviluppò nei primi anni del Novecento e che Godard, in un certo senso, trasportò con questo film nell’ambito cinematografico.
Le motivazioni, però, appaiono diverse da quelle che suppose Borghi: il film prende vita dal frammento, non sembra nascere dalla stagnazione o dalla mancanza di inventiva. Spezzare le immagini e i corpi, nella pellicola, si dimostra una scelta mirata per rendere al meglio le idee del regista e per esprimere la sessualità in termini sottili e mai scontati.
Dal momento che la sessualità si trova al centro di questo film, si trattava di trovare il modo di filmarla in maniera adeguata. Godard, pudico calvinista, inventò la frammentazione del corpo in primissimi piani incredibilmente suggestivi seppur estetici e privi di psicologia.
Il regista “spia” l’attrice protagonista, scegliendo i suoi particolari, soffermandovisi: il collo, la schiena, le labbra, gli occhi. Tutto viene separato dal resto, ogni spezzone costituisce un’immagine a sé. Godard fa della donna un mezzo, uno strumento diviso in parti che sceglie di studiare, inquadrandolo e mostrandolo al pubblico nella sua semplicità.
Le musiche, di Beethoven, più che accompagnare le scene, danno la sensazione di emergere come una realtà altra che riesce a sopravvivere parallelamente alle immagini in maniera autonoma. La colonna sonora, come l’intero film, è frammentata. Si accosta ai momenti più intimi dell’opera, ai dialoghi d’amore, alle separazioni, ai momenti strazianti. Si ha l’impressione che chiudendo gli occhi, si possa percepire comunque la forza di quelle scene con il solo ascolto dei quartetti. Probabilmente, il regista non avrebbe potuto scegliere musica più adatta.
Altra peculiarità del lungometraggio è il ruolo delle pubblicità: quest’ultimo, difatti, si propone come una forte critica alla società consumistica degli anni Sessanta, intervallando alcune immagini che ripropongono una donna oggettivata, ridotta nelle sue parti singole, agli oggetti veri e propri. Vediamo, allora, manifesti pubblicitari di biancheria intima e profumi che si alternano alla carne, ai frammenti del corpo femminile. È facile, quindi, giungere alla riflessione che pervase la critica, la quale ricollegò il film alla Pop Art, creando l’idea di una God-art, come prodotto della prima.
Uno degli elementi dell’opera che più colpisce è, senza dubbio, il monologo interiore, composto dai “leggeri” flussi di coscienza della protagonista che si susseguono ai dialoghi. Charlotte si perde, divaga, crea delle immagini apparentemente prive di significato. Un espediente che non fa altro che rafforzare il senso della frammentazione: le parole della protagonista, infatti, risultano sconnesse. Siamo dinanzi alla scomposizione del personaggio, dall’esterno con il corpo, dall’interno con i pensieri. Sta allo spettatore, poi, ricomporre i cocci.
Il finale è quasi come trattenere il respiro per una frazione di secondo: ritroviamo le mani, che aprono la scena iniziale e che adesso chiudono il film, mentre si separano. Il dialogo è l’annunciazione della conclusione della pellicola e, perdipiù, della storia d’amore:
– È finita. Devo andare.
– Sì… è finita.
Ed è con questa immagine potente e disarmante che il regista conclude l’opera, lasciando al pubblico non solo il sapore agrodolce di un epilogo malinconico, ma anche la possibilità di interpretare quest’ultimo come meglio ritiene.