God Save the Queer. Catechismo femminista di Michela Murgia è uno di quei libri che restano sulla nostra scrivania per essere letti e riletti, sfogliati e sottolineati. Un libro che fa conoscere la forza dirompente della prosa di una scrittrice capace di suscitare momenti fertilissimi di discussione e di pensiero critico, un’intellettuale a tutto tondo di cui oggi sentiamo già la mancanza nel dibattito contro la violenza di genere.
Ogni autore, in modo chiaro oppure implicito, esprime la sua concezione politica, la sua piramide valoriale in relazione al potere, all’amore, all’educazione etica e sociale, ai rapporti privati e pubblici tra uomini e donne. Ovvio citare bell hooks, scrittrice e attivista femminista statunitense, che delinea nel saggio Elogio del margine un percorso di lotta in campo politico ed estetico, fondando la sua riflessione politica sulla propria esperienza autobiografica: i rapporti familiari e di coppia, l’istruzione, l’uso del denaro, la pratica della scrittura.
Anche Murgia ha sempre espresso con forza il suo pensiero. Teologia, femminismo, letteratura e arte sono i campi culturali in cui ha spaziato. Il suo sentire è documentato da tante interviste online, oltre che dai suoi saggi. Ascoltarla nei video presenti sul web ci offre la percezione esatta dell’intelligenza vulcanica e divergente di quest’artista che sapeva che non si può dimenticare la storia millenaria di sopraffazione e di ingiustizia subita dalle donne e se ne è fatta testimone critica in ogni scritto.
Michela Murgia è capace di sconvolgere ogni credenza tradizionale sulle stereotipie di genere, costringe il lettore a capovolgere radicalmente il suo punto di vista. Il libro è scandito in brevi capitoli che affrontano in modo frammentario ma efficace alcuni passi dell’insegnamento tradizionale della religione cattolica. Da teologa e in modo breve ed essenziale, ne mostra gli aspetti maschilisti e misogini. Vuole raccontare come si possa essere femministe ma credere ugualmente in Dio. Parte dalla sua educazione catechistica e familiare per offrire al lettore uno sguardo nuovo, dalla parte delle donne. Affronta la questione queer, superando il paradigma patriarcale del linguaggio biblico.
La Bibbia infatti offre una ricchezza ampia di immagini di Dio, spesso diversificate tra di loro, mentre si è affermata nel tempo l’immagine unica di un divino maschile nominato nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo. Il culto strutturalmente maschilista esclude le donne come soggetto attivo della lettura della pagina teologica, considerandole solo un oggetto passivo, erogatore di servizi di cura e di sostegno della casta sacerdotale prettamente maschile. Eppure il culto della Madre era presente in tante religioni arcaiche e anche nei passi evangelici le donne sono profetiche e messaggere della sacralità. Questa ingiusta contraddizione esaspera ogni sensibilità femminile che ha l’amara consapevolezza di un’esclusione effettiva mortificante dell’intelligenza e dei talenti delle donne.
Le raffigurazioni di Dio Maschio sono sempre state concettualmente sbagliate. Averle tenute davanti agli occhi dei credenti per secoli le ha sacralizzate e rese un errore spirituale di portata monumentale.
Per superare la metafora iconografica patriarcale, Michela Murgia riprende il dipinto della Trinità di Rublev, monaco del 1400, che raffigura la triade divina in un cerchio in cui siedono le tre figure femminili dell’episodio biblico, dove Abramo e Sara anziani ricevono l’annuncio della gravidanza miracolosa. Lo Spirito Santo viene così rappresentato da un’immagine femminile, allegoria che non stigmatizza la donna ma la valorizza e la include in modo positivo.
Dice la teologa Teresa Forcades che l’amore ha bisogno come minimo di tre persone per realizzarsi nella sua completezza. Questa citazione allude alla circolarità dell’esperienza affettiva, come qualcosa che si apre al mondo in un dialogo orizzontale dinamico. Anche Gesù viene letto con lo sguardo queer nel suo essere soglia, luogo di confine e non gabbia, come prassi di liberazione dalle gerarchie, spazio fecondo di cui non abbiamo compreso il potenziale vitale.
Michela Murgia narra le sue vicende autobiografiche per dare spessore alle proprie riflessioni spirituali. Parte dai suoi incontri e dai suoi ricordi familiari per far capire come sia coerente con la scelta cristiana e spirituale non tenere fuori l’universo femminile dalla dimensione della sacralità.
[…] La fede in Gesù Cristo (e lo dico con un certo rammarico) non offre consolazione nel senso pacificatore del termine. Dopo più di duemila anni è ancora interlocutoria e a chi vi si confronta impone un linguaggio che resta sempre scomodo, perché implica uno spostamento dalla zona confortevole delle risposte a quella terremota delle domande.
Con la terza ondata femminista, tra gli anni Novanta e i primi anni del Duemila, le donne si sono interrogate sulla questione identitaria, in modo particolare sul concetto di genere, sull’orientamento sessuale e di etnia. È nata così nell’ambito del femminismo la teoria queer, che considera la sessualità non un ambito biologico bensì un costrutto della società, contestando il primato dell’eterosessualità.
Per queer dunque si intendono tutte le persone non eterosessuali e non cisgender. Tali teorie esprimono il punto di vista dei soggetti che subiscono il potere delle norme sessuali, persone le cui identità sono considerate variamente fuori della norma e che nelle società occidentali sono indicate perlopiù come LGBTQ+ (e in altre parti del mondo con altri nomi). Le teorie queer oppongono resistenza al concetto di eterosessualità obbligatoria e alle forme di pensiero che riducono la complessità della sessualità umana ad alternative rigidamente binarie (maschio/femmina, omosessuale/eterosessuale). La letteratura queer propone un’altra percezione della sessualità e dell’affettività, basata sul desiderio di amore tra creature che non vogliono essere definite dal sesso ma dal loro essere “persona”.
Michela Murgia, da credente, spiega che il messaggio di Gesù è in realtà molto inclusivo, nonostante la religione cattolica, per fattori legati all’organizzazione sociale ed economica, sia stata fortemente maschilista ed escludente, proteggendo la proprietà privata e la struttura gerarchica patriarcale. Per la scrittrice, “Gesù è un Messia queer” perché Cristo non classificava e catalogava gli altri in base all’orientamento sessuale ma si avvicinava a ogni persona a prescindere dal suo ruolo, dalla sua razza e dal suo sesso.
[…] L’intera vicenda di Gesù, rivista in chiave queer, offre spunti preziosi di riflessione tanto alla militanza quanto alla fede, senza che appaia tra i due percorsi alcuna sostanziale incompatibilità […], accettare la queerness come prassi Cristiana significa riconoscere che il confine non ci circonda ma ci attraversa e che quel che avvertiamo come contraddizione è in realtà uno spazio fecondo di cui non abbiamo ancora compreso il potenziale vitale.
L’autrice quindi opera questa scissione tra il messaggio cristiano legato a una spiritualità libera da gerarchie divisive e dall’istituzione cattolica plurimillenaria maschilista e misogina, che pratica la discriminazione nelle sue strutture, prima ancora nella dottrina, cercando nel tessuto biblico le giustificazioni al suo atteggiamento sessista. La persona credente, afferma, non è un soggetto illogico che subisce l’esperienza di fede sul piano emozionale o istintivo, ma è in grado di spiegare le proprie motivazioni spirituali in relazione ai valori a cui aderisce.
Sia il femminismo che il cristianesimo sono pratiche soggettive con conseguenze comunitarie, che non si esauriscono individualmente. Il patriarcato ecclesiale impone una struttura verticistica dove solo gli uomini parlano e decidono, mentre le donne servono obbedienti e in silenzio. Ma questa divisione di ruoli e di compiti non è nella narrazione evangelica, dove le donne erano presenti nelle assemblee, erano in cerchio, parlavano e discutevano, erano apostole come Maria Maddalena.
L’esperienza narrata indica quindi un modo comunitario e paritario di vivere la fede. Racconta l’importanza delle donne nel sostegno alla predicazione, indica la loro sapienza e la loro presenza come interlocutrici considerate allo stesso livello degli uomini. La radicalità liberante del messaggio evangelico contrasta con il mantenimento di questa ingiustizia da parte della chiesa cattolica. I tempi sono cambiati e anche l’istituzione deve abbandonare questo abito patriarcale e sessista, ormai compromesso da evidenti contraddizioni. Siamo persone libere nella fede, e la fede, afferma Murgia, può aggiungere maggiore libertà al percorso di liberazione che stiamo facendo, può rendere ogni incontro inclusivo.
Ogni esclusione crea dolore e separazione. Il cristianesimo, continua, infantilizzato per decenni come fede di bambini e di donne semplici, è stato spiegato come l’ottusa dottrina del dogma che sospende la ragione, fermo alla religiosità bigotta delle processioni e dei miracoli folkloristici, suscitando spesso ironia e persino disprezzo tra i letterati e le letterate. Bisogna avere il coraggio e sentire la responsabilità di avviare una conversazione sulla fede che nasce dal vissuto e che può generare sapienza.
Le chiese hanno preferito in questi ultimi decenni perdere generazioni intere di donne piuttosto che capire le enormi risorse di intelligenza e di autonomia che venivano dal femminismo. Non hanno saputo mettersi in ascolto, perché hanno temuto questo desiderio profondo di discutere e andare oltre la compiacente obbedienza. E proprio in questa ottica Murgia libera l’aggettivo queer dalla sua riduzione a una delle possibili varianti dell’appartenenza sessuale e gli restituisce un’ampiezza di campo semantico che si identifica con la capacità di pensare e sentire, andando oltre ogni schema binario.