Non si tratta del rapporto contenuto nell’espressione dostoievschiana di “umiliati e offesi”. In Dostojevskij c’è potente il sentimento nazional-popolare, cioè la coscienza di una missione degli intellettuali verso il popolo che magari è oggettivamente costituito di umili, ma che deve essere liberato da questa umiltà, trasformato, rigenerato.
I luoghi dell’abbandono, quelle periferie dell’anima dove bisogna portare prima una “lingua”, poi un sentire politico. L’abbandono crea paura, sottomissione, cannibalismo anaffettivo. Il cervello si instupidisce talmente da dimenticare, oltre ai valori, anche i propri interessi, la propria sopravvivenza. Così spetta all’intellettuale il compito di formare massa critica. Coscienza di classe. Ma Gramsci non aveva un giudizio lusinghiero sui pensatori italiani.
Nell’intellettuale italiano l’espressione di “umili” indica un rapporto di protezione paterna e paternale, il sentimento sufficiente di una propria indiscussa superiorità, il rapporto come tra due razze, una ritenuta superiore e l’altra inferiore, il rapporto come tra adulti e bambini nella vecchia pedagogia e, peggio ancora, un rapporto da società protettrice degli animali, o da esercito della Salute anglosassone verso i cannibali della Nuova Guinea.
A leggere i giornali di oggi la situazione non è molto cambiata. Stupisce e irrita l’incapacità dei nostri pensatori di leggere la realtà: è come se si confrontassero su alchimie da salotto, senza un nesso logico con la situazione reale. Così anche le forze politiche di schieramenti avversi, non leggendo e comprendendo la realtà, mistificano ogni dibattito, conducendo noi osservatori in un limbo fatto di slogan vuoti e insulti gutturali. La povertà, la nuova povertà, è sconosciuta alla classe dirigente e, proprio per questo, affrontata con i peggiori cliché che Gramsci aveva già individuato.
Portare un terzo della popolazione italiana, circa venti milioni di persone, in una condizione di deprivazione, precarietà e paura, trasformerà questo Paese in un inferno triste. Ma, cosa ancora più demenziale, non avendo equilibri e potenzialità del Terzo Mondo, ci trasformerà in un esplosivo Quarto Mondo, in cui la stessa produzione industriale, il commercio e le professioni subiranno un tracollo tale che ogni economia salterà in aria. Un collasso. La burocrazia intellettuale italica vive e ha sempre vissuto alla giornata, evolvendosi alle spalle degli altri, ma mantenendo un istinto vampiresco e poco congeniale allo sviluppo sociale. Eredità del feudalesimo?
1) l’apoliticità fondamentale del popolo italiano, specialmente della piccola borghesia e dei piccoli intellettuali, apoliticità irrequieta, riottosa; 2) il fatto che non era incarnata nel popolo italiano nessuna tradizione di partito di massa, che non esistevano cioè direttive storico-politiche di massa orientatrici delle passioni popolari, tradizionalmente forti e dominanti; 3) la situazione del dopoguerra (simile alla nostra ndr), in cui tali elementi si presentavano moltiplicati, perché, dopo quattro anni di guerra, decine di migliaia di uomini erano diventati moralmente e socialmente vagabondi, disancorati, avidi di sensazioni non più imposte dalla disciplina statale, ma liberamente, volontariamente scelte da se stessi.
Un lassismo circolare che, in una società oltre l’orlo di una crisi di nervi, apre le porte a ogni tipo di avventuriero. Leggere le scorribande attuali del duo Meloni-Salvini in questa ottica fa percepire con orrore che esse sono frutto di una strategia dell’abbandono dei partiti della fumosa sinistra rosa confetto. Lo stesso trenino del bunga bunga prende consistenza e forza non in una determinata forza, ma un pochino in tutte. Rendendo marce e putride tutte le manifestazioni dell’italico vivere e in ogni ambito.
Lo stesso tanfo di incenso di gran parte del Terzo Settore indica che, ancora oggi, l’intento paternale punitivo clerico-fascista verso umili è vissuto come la sola ambigua funzione degli eserciti della bontà. Una verticalità, talmente ambigua, da rendere la maggior parte degli interventi utili alla redenzione terrena e celestiale di chi li compie e non di chi ha realmente bisogno e che, anzi, li subisce. La dignità di chi è in difficoltà, invece, dovrebbe venire prima di tutto. È il nulla che prende il sopravvento sulle istanze di uguaglianza e di riscatto. Un nulla che in Gramsci veniva analizzato a seguito di una guerra mondiale e che, oggi, è invece frutto della globalizzazione incontrollata, delle crisi economiche cicliche che hanno cancellato saperi, mestieri e sicurezze, e dal consumismo circolare, dove ogni ambito del nostro esistere viene trasformato nella sola necessità ossessiva di produrre rifiuti.
I poveri, i quasi poveri, quelli a rischio povertà, gli umili ai quali Gramsci si riferisce, sono la vera forza etica di ogni agire: il metronomo del ritmo dell’esistenza politica. È il lascito morale dal quale e sul quale è esploso il Partito Comunista Italiano dopo la Resistenza, quello che in pochi decenni ha creato le premesse di uno sviluppo sociale che non ha pari al mondo.
Contributo a cura di Luca Musella