È l’ultima notte dell’anno quando il proprietario dell’emporio, principale narratore della storia, la vede entrare: prima una scarpa, poi la valigia, poi tutto il resto.
Può darsi che io non l’abbia vista neppure allora e che abbia solo immaginato, non ricordo, la sua presenza immobile situata con esattezza fra la baldoria e la notte.
Los adioses è il titolo originale de Gli addii, raffinata opera di Juan Carlos Onetti, proposta nuovamente dalla casa editrice SUR quest’anno (che, dello stesso autore, ha già ripubblicato La vita breve e Il cantiere), con la traduzione di Dario Puccini. Quella di Onetti è una nouvelle perfetta, condensata in un centinaio di pagine, leggera e profonda, che gioca sull’equilibrio tra il punto di vista del romanzo breve e la sua realtà interna. La stessa realtà è in sé punto di vista, o meglio è il resoconto di più sguardi, di più voci, di cui si fa portavoce per il lettore il proprietario dell’emporio. Questi non ha un nome ma, in un certo senso, un dono: riesce a capire da una prima impressione chi dei nuovi clienti si farà curare in sanatorio, luogo intorno al quale ruota la comunità del paese, economicamente e culturalmente.
L’uomo dalle spalle ampie entra nell’emporio per prendere i biglietti, proprio come tutti i nuovi arrivati, ma quel suo modo di muovere le mani, lente e intimidite, quasi a voler chiedere scusa per il loro gestire disinteressato, colpisce il narratore al punto che vorrebbe dirgli di aver capito tutto di lui. Gli basta ricevere il suo saluto senza sorriso per scavare immediatamente nel passato di quell’uomo, tanto da intuirlo come un sorriso diventato inutile o controproducente già da molto tempo. Tanto da inserirsi, dunque, col suo indiscreto punto di vista, in un passato indefinito, perché tutto dell’uomo dalle mani incerte pare riguardarlo.
L’ospite non parla ma possiamo vederlo parlare, più che altro farsi capire, mentre, nel solito abito grigio di città, chiede al proprietario le lettere che arrivano puntualmente all’emporio per quasi tutta la sua permanenza in paese, e possiamo vedere che le ripone in tasca, nel tentativo di sforzare verso di loro un’indifferenza uguale a quella che riserva al benessere del suo corpo. Lo conosciamo, così, anche attraverso la sua sigillata corrispondenza, dalle lettere a due grafie distinte: il primo tipo con inchiostro blu, le altre scritte a macchina. Queste ultime, però, smettono di arrivare quando dall’autobus, un giorno, scende una donna in occhiali da sole.
Quello che mancava al nostro tipo era la donna. Questa porta al paese e alle orecchie dei suoi abitanti una notizia in funzione di testimone fuori campo, avendolo conosciuto, a differenza degli altri, come ex campione di pallacanestro. Tale particolare viene approfondito, nella postfazione al libro, da Antonio Muñoz Molina, insieme ad altri aneddoti ripresi direttamente dall’ammaliante universo onettiano. Anche il narratore de Gli addii prende a pretesto quella confidenza per dilatare timori e glorie del protagonista: lo vede avvolto nel fallimento di chi ha vissuto confidando nel suo corpo, di chi è stato, in un certo senso, il suo corpo; lo immagina poi in una stanza a esaminare da solo, senza capire, la lastra della prima radiografia, circondato da trofei e ricordi.
Quando la donna va via, l’uomo torna a incarnare quel sottile senso di disperazione che il proprietario dell’emporio era convinto avesse rivelato a lui soltanto, in quel duello mai dichiarato in cui l’uno ce l’ha segretamente con l’altro perché diviene specchio della paura della speranza. Ma lei non è l’unica a fargli visita. Nella notte del 31 dicembre, mentre tutti ballano e sollevano bicchieri, entra nell’emporio una ragazza in guanti bianchi, troppo giovane per essere una dei malati arrivati lì per raggiungere il sanatorio, con un viso che tradisce il finale inevitabile anche della sua storia e che emana giovinezza come fosse una faccenda quasi mitica, in grado di trasformare tutto immediatamente in memoria, in remota esperienza.
Anche in questo caso alcune lettere si erano interrotte ma, subito dopo la visita, riprendono ad arrivare di entrambi i tipi, ambedue dal contenuto troppo autentico per essere rivelato. E presto, in carne e ossa e questa volta insieme, tornano anche le due donne, incominciando un gioco, come quello delle carte, per cui la comunità scommette su colei che indossa gli occhiali da sole, forse per via degli anni, della consuetudine, del bambino che si porta dietro. Tornano, le scrutano, si incontrano; si scoprono calme, disarmate, perdenti e tutti possono immaginare le dinamiche femminili che riguardano la loro antica storia: due donne che si odiano senza sforzarsi, da tutta la vita. Proprio in questo momento della narrazione possiamo avvertire finalmente il tono della voce del protagonista, stanco, lento, sempre più malato perché riluttante alle cure del sanatorio, così come ha predetto il narratore.
In una composta contesa per quel che resta dell’uomo, per la sua desolazione e per la sua pelle che ormai sembra come appoggiata su una stampella, in un’arrendevole danza improvvisata a due, a tre, tra donne, tra amanti, nel sangue e nell’amore, i tre personaggi si incontrano e disincontrano sotto gli occhi di tutti, sullo sfondo di una montagna, di un emporio, un albergo e il villino delle Ferreyra. Le figure femminili rappresentano il segreto esclusivo di una vita che, seppur giudicata, presunta, plasmata da chiunque al paese, appartiene a quell’uomo soltanto, il quale, ormai un’ombra, sembra non considerarla più o almeno fin quando lei cammina appoggiata alla sua accertata forza, immaginando e correggendo l’impressione che potevano dare i loro due corpi, passo dopo passo, […] scoprendo che niente dura né si ripete.
La comunità si riunisce così per dire addio all’uomo dalle possenti spalle, prima ricurve poi rinvigorite quando facevano da appoggio per le due figure femminile che, come ombre pure loro, figure ben definite ma intoccabili, orbitano intorno a lui nel tentativo di conforto. Ed è lui che dice addio a quella comunità alla quale si integra solo nella dolce compagnia delle donne della sua vita; a quegli abitanti che non sopportavano la sua ostinazione a non accettare la malattia, a non affratellarsi con loro, a mantenersi lontano come se mai fosse arrivato in paese, a chiudersi in un riservo intollerabile e provocatorio per chi libero così dal mondo non si potrà mai sentire.
È proprio questo che lo distingue dal gruppo parlante, il quale trova nell’interesse verso l’esistenza altrui la maniera per sfuggire alla propria: la libertà di essere anche senza che lo guardino, di esistere anche senza parole. Il proprietario dell’emporio, intanto, all’epilogo della faticosa storia, si guarda indietro e si sente investito di un grande potere, come se l’uomo e la ragazza, la donna matura e anche il bambino, fossero nati dalla sua volontà: per vivere ciò che io avevo deciso. Ma chi ha deciso veramente come doveva finire? Era l’epilogo che i testimoni avevano immaginato? Quella lettera avrebbe sovvertito tutto quell’inutile fantasticare?
In questo romanzo breve ed efficace, l’immaginazione, mossa da un giudizio talvolta affilato, mette in moto una narrazione autoreferenziale che tiene conto di ciò che si vede solo in funzione di ciò che è possibile supporne, gestendo un tempo, uno spazio e dei sentimenti sospesi. Chiara Valerio, nella prefazione al libro, sottolinea come ciò avvenga anche sulle piattaforme social, su cui ognuno propone una versione di sé, degli altri e del mondo, che si attesta come realtà o non si attesta. Convinti che la verità si trovi solo nell’interdipendenza con gli altri, nel riflesso della loro approvazione, è come se oggi si rinunciasse a vivere pur di non farlo realmente, senza schermo, con individualità.
Così rimanemmo, io e l’uomo, virtualmente sconosciuti l’uno all’altro.