Doveva essere l’anno di Giulio Regeni il 2020, almeno nelle intenzioni del Presidente della Camera Roberto Fico. Lo aveva definito così in occasione del quarto anniversario della scomparsa del giovane friulano e, invece, si sta confermando l’anno di un’alleanza affatto sorprendente ma comunque preoccupante. Parliamo dei rapporti tra Italia ed Egitto, due Paesi che avrebbero molto di cui discutere e, invece, portano avanti un teatrino di amorevoli intenti.
È da tempo, ormai, che ci raccontano di una possibile collaborazione tra le parti: ultima, in ordine cronologico, la falsa apertura delle autorità egiziane sulle indagini relative alla scomparsa del ricercatore trovato morto il 3 febbraio del 2016 sulla strada che collega la capitale con Alessandria d’Egitto. A rivelarlo – ma non ce n’era alcun bisogno – è bastato il meeting dello scorso luglio con le autorità de Il Cairo, un appuntamento che la politica nostrana ci aveva promesso come l’incontro della verità, ma rivelatosi ben presto l’ennesima presa – e perdita – di tempo. Per l’occasione, infatti, i pm egiziani, hanno formulato alcune richieste investigative per meglio delineare l’attività di Regeni in Egitto. Una richiesta avanzata pochi giorni dopo l’invio dei presunti effetti personali del ricercatore – in realtà dei falsi – e a più di un anno dalla rogatoria a cui il Paese di Al-Sisi non ha mai dato risposta, a cominciare dalla richiesta di consegna delle cinque persone iscritte nel registro degli indagati dalla procura di Roma affinché possano essere processate in Italia. Da quell’iscrizione sono passati ormai venti mesi, eppure nulla è cambiato e nulla fa presagire un cambiamento. Almeno finché i rappresentanti di casa nostra non smetteranno la loro complicità.
È innegabile, infatti, che sin dal gennaio del 2016, vale a dire da quando si sono perse le tracce di Giulio, le istituzioni italiane non hanno mai realmente interrogato i propri interlocutori, preteso verità o richiesto giustizia, mai. Al massimo, come per ogni questione che conta, si sono appropriate di un hashtag diventato virale in tutto il mondo. Nel frattempo, sono trascorsi quasi cinque anni di occhi strizzati e strette di mano. E, in fondo, nessuno ha pensato nemmeno di doverlo camuffare. Esattamente come adesso.
Non si tratta di questioni politiche, di vicinanza ideologica o partitica. In questo lungo periodo, a Roma, si sono alternate le poltrone, ma non la fiducia garantita a un partner prezioso, persino più importante della vita di un uomo. Lo ha ribadito Salvini da Ministro dell’Interno, declassando il tutto a il problema Regeni – «comprendo bene la richiesta di giustizia della famiglia. Ma per noi, l’Italia, è fondamentale avere buone relazioni con un Paese importante come l’Egitto» –, e lo sta ribadendo l’attuale titolare della Farnesina, quel Luigi Di Maio che all’opposizione ruggiva e al governo sembra aver dimenticato una battaglia che persino lui non ha mai creduto di dover combattere in prima persona.
Al contrario di quanto urlato negli anni e di quanto richiesto dalla famiglia di Giulio, infatti, il Ministro degli Esteri ha scelto di lasciare l’ambasciatore italiano in Egitto, definendo fuorviante pensare che ritirarlo sia necessario per raggiungere la verità. La sua presenza – ha spiegato – rientra nella strategia dell’esecutivo anche per chi come Patrick Zaky c’è ancora. Una strategia che a oggi – che nemmeno dello studente bolognese si sa qualcosa – sembra però favorire soltanto il governo di Al-Sisi. I rapporti tra i Paesi, infatti, procedono senza soluzione di continuità. Basti pensare al via libera dello scorso giugno alla vendita, all’Egitto, di due navi della marina militare per un valore stimato di circa 1.2 miliardi. Un affare, parte di una commessa ancora più ampia – l’introito si aggirerebbe tra i 9 e gli 11 miliardi di euro –, che i Regeni hanno bollato come un tradimento, stanchi ormai di una politica che investe sul sospetto, sul disinteresse generale, sull’oblio.
Come nel caso di Mario Paciolla, il collaboratore ONU ritrovato morto nella sua casa di San Vicente di Caguán, in Colombia, per il quale si è parlato sin da subito di suicidio – quasi a voler rapidamente archiviare la vicenda – e per il quale, invece, stanno venendo fuori incongruenze e pericolose associazioni sin troppo simili alla questione egiziana.
In Sud America, Paciolla stava prendendo parte a un progetto di pacificazione interna tra il governo locale ed ex guerriglieri delle forze armate rivoluzionarie. Una missione per la quale sua madre ha ribadito più volte che fosse preoccupato. Già a gennaio, infatti, Mario aveva richiesto il trasferimento, affermando di volersi dimenticare per sempre della Colombia, un luogo che non sentiva più sicuro per lui. Ad agosto, se glielo avessero permesso, sarebbe tornato a Napoli. E mentre la politica italiana tace, sulla prima pagina del quotidiano El Espectador è apparsa l’ultima parte dell’inchiesta portata avanti dalla giornalista investigativa Claudia Julieta Duque che ricostruisce la scena del crimine e alcune dinamiche della missione che avrebbe messo il cooperante in pericolo di vita.
L’articolista racconta del mouse del pc ritrovato sporco di sangue – mouse che, a quanto pare, sarebbe stato ripulito e prelevato dall’ONU per poi ricomparire nella sede centrale delle Nazioni Unite a Bogotá –, degli effetti personali mai spediti alla famiglia e della scoperta di un dossier che ha portato alle dimissioni del Ministro della Difesa Guillermo Botero, coinvolto in una vicenda che ancora minaccia il potere colombiano. Nell’agosto del 2019, le Forze Aree bombardano l’accampamento di Rogelio Bolivár Córdova, il comandante delle cellule dissidenti delle FARC, i gruppi armati che non accettano il disarmo sancito dagli Accordi di pace del 2016. Nell’accampamento si trovano soprattutto minorenni, molti dei quali poco più che bambini reclutati contro la propria volontà.
In un primo momento la notizia è mantenuta segreta, poi la polizia compila l’inventario delle vittime senza precisarne l’età. Pochi mesi dopo, a novembre, il senatore d’opposizione Roy Barreras interroga Botero sul massacro degli adolescenti e sul perché sia stata taciuta quella che, dal Presidente della Repubblica, viene definita un’operazione meticolosa e impeccabile. Nel Paese, scoppiano caos e violenza, si impone persino il coprifuoco. Nello stesso periodo, Paciolla chiede alle riviste online che ospitano le sue poesie di cancellarle, rende privato il suo account Facebook, rimuove le foto e cancella tutti i tweet, poi chiede a un amico di copiare i dati presenti sul suo computer. Tornato in Colombia, racconta che, con altri colleghi, ha subito degli attacchi informatici.
Secondo la ricostruzione di Claudia Duque, Barreras ha ottenuto le informazioni da un report delle Nazioni Unite filtrato proprio dalla sezione per la quale lavorava Mario e che lui stesso ha redatto insieme ad altri. Fonti anonime parlano di una lotta di potere interna all’ONU, avallata da Raúl Rosende, direttore dell’area di verificazione della missione in Colombia, che avrebbe scavalcato il suo superiore nella diffusione del delicato documento perché vicino al governo locale, al pari di altri funzionari che la stessa giornalista cita alimentando il sospetto nei loro confronti.
Al momento, quella de El Espectador è un’inchiesta non ancora comprovata e che, si confermasse veritiera, aprirebbe uno squarcio enorme – ma non inedito – su una delle principali organizzazioni internazionali. A prescindere da essa, però, sono tantissimi i dubbi sulla morte di Paciolla – ormai chiaramente non suicida – e, come in Egitto, punta di un iceberg fatto di poteri militari, lotte clandestine ed enormi interessi economici. Come in Egitto, il governo italiano si mostra strafottente, non pervenuto, impegnato in chissà quale altra ricerca.
Mario aveva confidato ai familiari di sentirsi usato, sporco, tradito. Come i genitori di Regeni, come i suoi genitori. Ignorati e traditi da uno Stato che preferisce tacere, che agli uomini sceglie gli affari. Solo nel luglio 2019, gli investimenti italiani in Colombia hanno raggiunto i 420.4 milioni di dollari (+74% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente). Anche i turisti, prima del COVID, sono aumentati in modo esponenziale, confermando il trend che vede consolidarsi i rapporti tra le due nazioni. Il timore è che questa amicizia finisca per gettare ulteriori ombre sull’assassinio del funzionario ONU nel tentativo di non parlarne più. Un tentativo non nuovo nel Paese dell’omertà, del sentire mafioso, delle stragi volutamente irrisolte.
Per questo, che si tratti di Giulio, di Mario, di Patrick o di Silvia – liberata, sì, ma mai raccontata – la verità non può più essere taciuta, la verità va cercata, la verità va pretesa. Ancor prima che dall’Egitto o dalla Colombia, dall’Italia, quel fuoco amico che si nasconde dietro hashtag e braccialetti gialli, dietro il grido di dolore di famiglie e di attivisti impegnati – loro sì – per una giustizia che alla fine non arriva mai. Una giustizia che, forse, non conviene. Perché se la scorta è mediatica, il pericolo è politico.