Alle ultime Regionali lo abbiamo visto sfidare Vincenzo De Luca e Stefano Caldoro. Convinto e convincente, seppur alla sua prima tornata elettorale, Giuliano Granato ha scelto un battesimo di fuoco, dimostrando carattere e grinta da vendere. Intanto, Davide contro Golia, ha portato avanti la sua battaglia di lavoratore ingiustamente licenziato e, oggi, a distanza di un anno e mezzo, celebra la vittoria.
Ha passione e tenacia, Giuliano, ma anche competenza e garbo. Al telefono è un fiume in piena, mi racconta della sua esperienza personale, ma anche della Campania, delle sue inefficienze e del grosso lavoro da fare. Parliamo di Napoli, delle prossime elezioni, di politica e futuro. Di giovani, partire o restare, l’eterno dilemma. Di seguito, la nostra chiacchierata.
Partiamo da una buona notizia: di recente, hai annunciato la tua vittoria nel processo contro la Klevers italiana S.r.l. che orea dovrà reintegrarti in azienda. Ci racconteresti questa lunga battaglia?
«Partiamo dalla fine. Il giudice del Tribunale di Aversa ha condannato l’azienda non solo per mancato motivo oggettivo, ma perché ha considerato il licenziamento nullo. Dalla sentenza si evince che c’è stata discriminazione e ritorsione antisindacale, che è l’unica causa che, a oggi, nei contratti coperti dal Jobs Act, prevede il reintegro. La nostra, dunque, è una vittoria su tutta la linea. Nel maggio del 2019 fui licenziato, formalmente, per un notevole calo di fatturato, ma in realtà fu a causa della mia attività sindacale. L’episodio scatenante si è rivelata un’assemblea tenutasi cinque giorni prima del licenziamento durante la quale mi opposi fermamente alla possibilità di firmare delle conciliazioni, vale a dire gli atti che prevedono che in cambio di un esborso economico da parte dell’azienda – nello specifico, parliamo di una cifra tra i 300 e i 500 euro in base all’anzianità di servizio – i lavoratori rinuncino a eventuali diritti maturati negli ultimi cinque anni con la formula del nulla a pretendere. In merito alla mia vittoria, quindi, tengo a sottolineare non solo la capacità dell’avvocato e il coraggio del giudice, chiamato a esprimersi su una sentenza affatto comoda, ma anche quanto le mobilitazioni politiche e sindacali abbiano una notevole eco all’interno delle aule.
Al di là dell’esito processuale, infatti, credo che questa storia sia importante non perché è la mia, ma perché è la storia di tanti che, pur non arrivando al licenziamento, vivono comunque le stesse pressioni. La deregolamentazione del mercato del lavoro di questi anni ha favorito il rafforzamento del meccanismo di comando e repressione, per cui alzare la testa è sempre più complicato, sia per questioni esterne – e mi riferisco alla disoccupazione galoppante – sia per motivazioni interne all’azienda stessa, dove si fa difficile affermare anche il più semplice diritto previsto da contratto. Un sistema avallato, tra l’altro, dal cambiamento che sta investendo l’intera società, oggi figlia di una temperie politica e culturale molto più reazionaria e regressiva che scongiura qualsiasi tipo di mobilitazione. Ne è una prova il sostegno dei tanti ex colleghi che adesso, più di prima, mi stanno dimostrando affetto, increduli di una vittoria che, ripeto, è un successo collettivo».
A proposito di battaglie lunghe: la Whirlpool ha annunciato la chiusura, nonostante alla multinazionale siano stati offerti ulteriori sostegni. Perché credi si sia arrivati a questo finale non così inaspettato? Cosa avrebbero dovuto o potuto fare le istituzioni?
«Il finale era già stato scritto il 31 maggio scorso e da allora l’azienda non si è smossa dalla sua posizione. Ecco perché alcune reazioni, di governo e sindacato, mi appaiono un po’ miopi. Nel 2018 era stato siglato un accordo sottoscritto da tutte le parti in causa, eppure soltanto pochi mesi dopo la Whirlpool ha scelto di chiudere la sede napoletana. A quel punto, continuare a muoversi semplicemente nel novero delle regole pattuite, scontrandosi con un muro che non vuole saperne, mi sembra una strategia molto limitata perché non costruisce i necessari rapporti di forza. Non fermi la Whirlpool con una semplice opera di convincimento. L’azienda sceglie di chiudere perché dice che lo stabilimento di Napoli è poco produttivo e i dati, quelli del 2018, le danno ragione. Nel 2019, invece, c’è stata una ripresa e l’ultimo trimestre del 2020 racconta di un aumento dell’utile operativo del 75%. Chi si oppone alla chiusura ha quindi ragione perché parliamo di un’azienda in salute, ma la ragione, senza la forza, è ben poca cosa. Non è questione di morale, ma di trattativa, ciononostante i sindacati hanno sempre insistito affinché si rispettasse l’accordo continuando la produzione; il governo, invece, è un fallimento totale.
I due esecutivi che si sono succeduti in questi mesi hanno avuto posizioni ambigue e raccontato frottole (vedi Di Maio), senza trovare soluzioni, ma formule concrete sono possibili. Penso alla nazionalizzazione, all’intervento statale diretto, dove lo Stato non deve limitarsi semplicemente a foraggiare un privato quanto a svolgere funzione di controllo. Nell’ultimo incontro dicono che hanno offerto 120 milioni di euro, ma la Whirlpool li ha rifiutati. È evidente che le ragioni non sono strettamente economiche dunque, anziché regalare soldi all’azienda, si può pensare di investirli per riavviare la produzione e, nel caso, verificare insieme ai lavoratori la possibilità di una riconversione che oggi, stando a esempi noti, gli operai rifiutano perché sfiduciati. Se lo Stato portasse avanti un intervento diretto, la Whirlpool potrebbe diventare un simbolo di riscatto sia in termini di riconversione sia di importante passo in avanti verso la transizione ecologica. Credo comunque che la partita non sia finita e lo dimostra la disponibilità alla lotta degli operai. Certo è che il tempo non gioca a favore dei più deboli. Non è un caso che all’inizio di questa battaglia i lavoratori fossero 415 e oggi sono 355. Ecco perché ribadisco l’importanza di iniziative, anche forti, affinché non si assista inermi a una lenta agonia. Ad ogni modo, dubito nella chiusura repentina perché nessuno vuole lo scoppio di una tale bomba sociale. Ciò che non si cita mai, infatti, è che la Whirlpool non riguarda soltanto i dipendenti, ma intere famiglie, un indotto notevole che coinvolge il presente della città e il futuro delle generazioni a venire, cui l’unica prospettiva sembra sempre più l’emigrazione».
Whirlpool ma non solo: da giorni, le piazze di Italia sono piene di lavoratori e titolari di attività che lamentano la propria insofferenza in merito alle ultime misure varate dal governo. A far rumore, su tutte, le proteste di Napoli e una notte che, in molti, hanno definito di guerriglia urbana. Un tuo parere sui DPCM e sulle manifestazioni, a detta di molti veicolate da infiltrazioni fasciste e malavitose.
«Chi dice che quelle proteste sono state eterodirette dai fascisti o dalla camorra non conosce la realtà oppure la vuole occultare perché quella piazza era espressione di un malcontento molto genuino e variegato. Era un calderone in cui trovavi tutto e il contrario di tutto. C’erano no mask e lavoratori a nero, piccoli e grandi commercianti, ma anche organizzazioni come la nostra o esponenti dell’estrema destra e di associazioni neofasciste. Di certo, a Napoli erano una minoranza perché storicamente più deboli, ma altrove hanno avuto maggiore risonanza. Tenendo ben chiaro questo tipo di contesto, però, il malcontento c’era. Se a marzo si accettava più di buon grado il lockdown, dinanzi a una situazione sanitaria nuova, oggi c’è una rottura della tolleranza psicologica e morale nei confronti di tutti i livelli di governo: ci si chiede, considerando le recenti chiusure, a cosa siano valsi i sacrifici della scorsa primavera se la risposta non è cambiata. C’è, poi, l’immediato, vale a dire la situazione di chi ha già messo fondo alle proprie risorse, economiche ma anche psicologiche, che adesso fatica ad accettare un nuovo lockdown.
Il Decreto Ristori, a mio avviso, è anche peggiore di quello di marzo. Avendo allargato la forbice di aziende che possono usufruire dei fondi, lo Stato sta distribuendo soldi a pioggia ma con il rischio di spendere tanto e male e finendo con il finanziare anche chi non ne ha alcun bisogno, a danno di chi invece ne necessita davvero. Nelle scorse settimane, in piazza, c’erano tante persone che dovrebbero essere nemiche tra loro: parlo del titolare del ristorante, ma anche del suo dipendente a nero, sfruttato e umiliato, che tuttavia spera nell’apertura dell’attività per guadagnarsi da vivere, nonostante le condizioni degradanti cui viene sottoposto. Per emanciparlo, non basta un volantino, servono soluzioni: se ci fosse la garanzia di un reddito di emergenza, con criteri molto più larghi di quelli elaborati nella prima fase del lockdown, si scongiurerebbe la sensazione che in questi sei mesi non sia stato fatto nulla.
Nel Paese stiamo assistendo a una mutazione delle mobilitazioni che si stanno avvicinando molto più alla rivolta che non alla costruzione di un ciclo di manifestazioni, cui si è tesi negli ultimi anni. È per questo che, per certi versi, temo di essere dinanzi a un fuoco di paglia. Già negli ultimi giorni le proteste sono scemate e non solo a Napoli. Il rischio è che lascino molti più detriti che apertura di prospettive».
A proposito di Napoli e Campania. Che succede? Sanità e trasporti sono al collasso, il lavoro regolare scarseggia e quello nero rischia, per molti, di diventare la sola opportunità di vita. Il COVID sta smascherando la politica del lanciafiamme? De Luca, che oggi invoca aiuto a Roma, cos’ha fatto nella sua lunga presidenza?
«Niente. Io stesso mi sono stupito dell’incapacità e dell’inconcludenza di De Luca, che ha fatto molto meno di quanto mi aspettassi. L’emergenza sta facendo venire al pettine tutti nodi già esistenti, il sistema sta crollando su se stesso non per la virulenza del virus, ma per la debolezza del sistema stesso. Andiamo con ordine: il lavoro nero è esploso. Gli ultimi dati parlano di 370mila lavoratori irregolari nella sola Campania, il che significa che quasi un milione di persone vive di manodopera illegale. Da questo punto di vista, non si è fatto niente, anzi, la situazione si è molto aggravata e chi deve controllare approfitta del COVID per fare sempre meno. A tal proposito, avevamo proposto, tramite un accordo tra Regione e ANCI all’interno del Comitato Regionale per la Salute e la Sicurezza sui posti di lavoro, di dare una direttiva affinché si incrementasse il controllo della polizia municipale, soprattutto in estate e nei settori accoglienza e ristorazione.
Per ciò che concerne i trasporti, invece, insieme alla sanità sono il vero vulnus del sistema e rappresentano il reale motivo per il quale le scuole sono state chiuse. Già prima della pandemia vantavamo la peggior tratta ferroviaria di Italia, che è la linea della circumvesuviana Napoli-Sorrento, ritardi standard altissimi e, dal 2000, una drastica riduzione dei mezzi e dei passeggeri, in barba a qualsiasi visione green delle città e del trasporto moderni. Inoltre, abbiamo un parco autobus che è obsoleto, incapace di rispondere ai bisogni della popolazione – sulla sola Napoli si calcola che manchino circa 250 veicoli –, al contempo, le assunzioni sono bloccate e tanti sono in cassa integrazione. Eppure, anziché intervenire, De Luca ha aspettato il 15 ottobre per annunciare la chiusura delle scuole e l’inizio di una trattativa con le aziende private per sgravare la pressione sul trasporto pubblico. Non è un po’ tardi? Stesso discorso vale per la sanità.
La situazione è questa: De Luca mente e i dati che trasmette sono falsi, come confermano testimonianze interne. Inoltre, le formule che utilizza sono talmente vaghe che diventano pericolose: tutti sanno che non dovremmo essere in zona gialla e il balletto delle terapie intensive è vergognoso, i posti non ci sono. Se pensiamo alle ambulanze, l’ASL 1 di Napoli ne ha a disposizione diciotto di giorno e quattordici di notte. Di quelle diurne, molte non riescono a uscire perché manca il personale. L’assistenza domiciliare, poi, non esiste. Le USCA promesse su Napoli 1 sono cinque su venti, per Napoli 2 e Napoli 3 sono previste sedici squadre di medici ma i mezzi risultano in avaria, almeno così dice la stampa. Insomma, il modello è crollato non soltanto per corruzione e incapacità, ma perché fallimentare.
Per vent’anni si è lavorato a un sistema ospedalocentrico fondato su poche eccellenze – che, spesso, da noi nemmeno lo sono – ma la medicina che funziona è quella territoriale, che arriva in casa. Non pochi grandi ospedali che coprono tutti i bisogni, ma assistenza domiciliare e medici di base. In Campania ne mancano circa trecento, migliaia di persone non ne hanno uno, soprattutto in quei piccoli centri dell’entroterra o del Cilento che spesso sono scoperti. È il sistema di Cuba e funziona perché, nonostante non ci sia la tecnologia italiana, c’è prevenzione. Una parola che in questa regione non esiste. Come la diagnostica pubblica.
Oggi si sta mettendo il privato al servizio del pubblico nell’ambito dei tamponi, ma non basta. Noi ne rivendichiamo la gratuità affinché siano accessibili a tutti, senza esclusione di quelle famiglie che non possono permetterseli diventando un pericolo per se stesse e per gli altri. La tutela della salute non è un fatto personale, ma comunitario e il virus ce lo sta dimostrando. C’è poi da dire che, quando si convertono gli ospedali ma non si sostituiscono, come sta succedendo in Campania, c’è il rischio di aggravare le condizioni di chi ha patologie diverse dal COVID o di chi nulla può fare per prevenirle. Sono in tanti ad aspettare la fine della pandemia per accedere alle cure, complice anche la chiusura delle tantissime strutture degli ultimi vent’anni – molte per mano di De Luca – che non si sta provvedendo a riaprire, anche quando ce ne sono le condizioni. Sei mesi fa, ipocritamente, i lavoratori venivano considerati eroi. Oggi, che rispetto ad allora molti dispositivi sono arrivati, si scoprono non a norma oppure insufficienti. Intanto, il personale è sotto organico, non si scorrono le graduatorie e, nel frattempo, si propongono assunzioni a tre o sei mesi, ovviamente rifiutate. Noi rivendichiamo tamponi gratis, attivazione di ambulatori pubblici, l’apertura di ospedali immediatamente agibili e assunzione del personale, medicina territoriale: il sistema sanitario va impostato in prospettiva, lavorando sulla prevenzione».
Alle ultime Regionali sei stato il candidato alla presidenza di Potere al Popolo. Ci racconteresti l’esperienza elettorale?
«Strana. Non solo perché è stata la mia prima esperienza, ma anche perché non ho mai incrociato il mio principale avversario, come se lui fosse al di sopra della competizione e non avesse bisogno di fare campagna elettorale. Di certo, a differenza degli altri, siamo stati molto in giro, attraversando la regione e imparando a conoscerla e a raccontarla non solo nelle sue criticità. Abbiamo voluto dimostrare che il nostro slogan, La Campania è il futuro, non è solo un motto. Ci sono molte energie positive nella nostra terra, a partire dalle risorse materiali, culturali e tecnologiche che sono tante e affatto scontate. Come a Sarno, da cui siamo partiti, che è sull’orlo del baratro. Abbiamo visitato i luoghi più inquinati, ma anche l’area più bella della zona – perché c’è –, dove alcuni contadini si stanno prendendo cura del fiume e della terra. Volevamo dimostrare che il futuro non è un qualcosa da inventare, è già qui e per farlo uscire fuori dobbiamo mandare a casa un’intera classe dirigente, non soltanto politica, ma anche imprenditoriale e direttamente criminale. I giovani, quelli che oggi sono costretti a partire, vanno coinvolti: in loro non c’è soltanto passività, come dicono, ma anche tanta voglia. Basti pensare ai forum o all’associazionismo che non mancano mai. A mancare è il passo successivo quando, cioè, il notabile o il figlio del notabile ti toglie spazio e tu ti ritrovi relegato ai margini. A quel punto, o accetti, o combatti, o parti».
Sempre in tema futuro. Come sta Napoli e che città troverà il prossimo sindaco?
«Dopo i quasi dieci anni de Magistris, Napoli presenta degli aspetti positivi che aprono al futuro: penso alla delibera sui beni comuni o a certi aspetti di partecipazione portati avanti soprattutto nella prima fase. Ma anche a provvedimenti come la costituzione di ABC, l’acqua bene comune, o l’internalizzazione delle maestre d’asilo, scelte che nel primo mandato si sono rivelate in controtendenza rispetto alle politiche di austerity e che tuttora rappresentano un patrimonio da salvaguardare. Ne è un esempio l’ANM, che è stata sottratta alle mire privatistiche ma il cui percorso in tal senso ha subito un’interruzione sostituita da uno giacere a vecchie logiche molto più di gestione dell’esistente che di trasformazione. Pur salvata, infatti, l’azienda continua a essere sottofinanziata. Nell’ultimo bilancio, ad esempio, si prevedono venti milioni in meno, ma ANM è in grossissima difficoltà.
Napoli è una città che ha una forte sofferenza sociale perché il modello di sviluppo individuato o, meglio, accompagnato, che è quello turistico, si è interrotto con lo scoppio della pandemia che ne sta mostrando tutti i limiti. Dal 2008 al 2018 si è passati dai 500mila ai 10 milioni di turisti l’anno e su questi flussi si è tentato di costruire ma oggi, che manca il sostegno esterno, ci si scopre senza forze e con un tessuto molto fragile. Tra l’altro, anche in questo caso, credo che non ci sia stato il coraggio di regolamentare, lasciando troppo all’autogestione e al proliferare di attività nel centro storico che, al di là del cambiamento del volto antico della città, hanno significato il caro prezzi e l’espulsione dei ceti popolari. Per fortuna, il processo non è stato compiuto. Non siamo ancora Firenze o Venezia, ma le tante piccole iniziative, tutte legate ai servizi turistici, hanno previsto occupazione di bassissima qualità, dunque ricorso al lavoro nero e a forme di impiego super precarie. Vien da sé che lo sviluppo di questi ultimi dieci anni è andato a mettere soldi nelle tasche di pochi e le casse del Comune non si sono realmente rafforzate. Ecco perché, per fare un esempio, dei 12 milioni annuali circa derivanti dalla tassa di soggiorno non abbiamo condiviso la scelta di affidarli totalmente all’Assessorato alla Cultura. Non che non vadano organizzati eventi, anzi, ma se la coperta è corta va garantito anche altro, come i trasporti e il diritto alla casa.
In quanto ai beni comuni, invece, al di là dell’Asilo o dell’Ex OPG e pochi altri, c’è un intero patrimonio che è in mano ai privati che pagano concessioni bassissime e tanto impiego irregolare. La sfida è riportare il tutto nelle mani del pubblico, anche se l’austerity ha tagliato parecchi fondi. Penso, però, che lo Stato non debba intervenire solo quando un’attività va fallendo, come Alitalia, ma quando è sana, quando è profittevole, scardinando una logica che avalla soltanto il privato. Va poi messa in sicurezza Napoli Servizi, che è un altro progetto ambizioso della giunta de Magistris e che, tuttavia, risente ancora del fatto che in buona parte è un carrozzone clientelare. Bisogna fare in modo che diventi il fulcro dello sviluppo cittadino e, in generale, progettare una visione futura della città che non ruoti soltanto intorno al turismo, ma che da esso tragga la rendita da reinvestire. La battaglia si muoverà tutta tra Bagnoli e Napoli Est, per le quali ci sono progetti che vanno chiariti sin da subito e non lasciati all’autogestione degli operatori, come già successo».
Cosa farà Potere al Popolo alle prossime elezioni?
«Il risultato delle Regionali nella città di Napoli è per noi dignitoso e ci spinge a dire che Potere al Popolo ci sarà. Al momento non stiamo seguendo la querelle dei candidati che ha riguardato anche la nomina di Alessandra Clemente. Siamo più concentrati sulla pandemia. La scelta di demA strizza l’occhio alla borghesia progressista napoletana e si propone come un ponte verso il PD e i 5 Stelle o, quantomeno, sembra guardare a quella prospettiva. Non tiene conto, però, di periferie e giovani, soggetti che già si sentono esclusi. Per gestire una città come Napoli ci vuole molto coraggio e di certo de Magistris ne ha avuto a lungo. Ora si è un po’ perso e non credo che, da questo punto di vista, la Clemente ne abbia abbastanza. Il Sindaco ha superato molti ostacoli, ma è stato intelligente nel costruire, nei momenti di maggiore debolezza, legami di forza importanti, seppur al di fuori delle istituzioni. All’interno, invece, resta pieno di nemici».
Di te si è detto che fossi troppo ragazzo per aspirare a Palazzo Santa Lucia. D’altra parte, dicono, il nostro è un Paese per vecchi che mal tollera la giovane età. Come spieghi questo handicap generazionale? E perché la politica lo avalla?
«La verità è che siamo una società sempre più vecchia, abituata al fatto che a 35 anni si è ancora ragazzini. All’estero non è così. Personalmente, non credo sia una questione di età, anche se ci sono esempi di giovani da non seguire – e penso a Di Maio, che ha un paio di anni in meno di me – ma di pregiudizio, che è troppo radicato e non riguarda soltanto la politica, ma i posti di potere in generale. Non possiamo fermarci all’anagrafe, Alexandra Ocasio-Cortez o altri giovani che hanno saputo crescere e coinvolgere perché hanno struttura e competenza ne sono un esempio, ricoprono persino ruoli di responsabilità. Non conta quanto tu sia giovane, ma quanto è giovane il tuo progetto. Il nostro è un problema di natura culturale, certo, ma non solo».
Come molti coetanei hai provato a trasferirti all’estero. A differenza di altri, però, hai scelto di tornare. Al netto delle disuguaglianze che la pandemia acuirà, cosa diresti a un ragazzo che ha paura del futuro? Partire o restare?
«L’emigrazione, oggi, non tocca soltanto giovani, ma anche fasce più adulte. Personalmente, sono contento di essere tornato e ho fatto questa scelta per due motivi: il primo è un richiamo affettivo, alle mie radici, per quanto Londra continui a mancarmi; il secondo è la volontà di trasformare il mondo intorno a me. Non sento di poter dare un consiglio valido per tutti perché le situazioni cambiano di persona in persona, ma che si parta o si resti, l’invito è a fare, non soltanto al fine della propria crescita personale, ma di un impegno nella trasformazione del contesto in cui si vive. Che sia di natura politica, sindacale o associativa, l’importante è che questo impegno sappia guardare oltre, affinché le ruote più grandi non finiscano sempre per schiacciare le più piccole».