Era un bambino al capolinea della stazione sull’ultimo tram numero 14 di una notte di inverno. E odorava di arancia. Qualcuno avrebbe potuto dire che la sua venuta somigliasse a quella di un Cristo dei nostri giorni, ma nessuno ci avrebbe giurato. Le scintille del pantografo sembravano la scia di una stella cometa, un astro troppo rapido per essere scorto, afferrato, immortalato nella memoria del tempo. Le rotaie, intanto, scorrevano imperterrite, così come le disgrazie di chi su quel mezzo metteva piede per sospendere la propria vita, sino all’ultima fermata, periferia della periferia dove Dio si rifiutava di guardare, dove neanche per sbaglio si era mai addentrato.
Una prostituta straniera e affamata, un cliente disgraziato e solo, un mago smemorato e malato, un’infermiera stanca a fine turno, un cameriere dai piedi dolenti, un venditore d’ombrelli che aspettava la pioggia, un migrante a cui avevano portato via anche l’unico amico, un coniglio che si era fatto cena, un giovane squattrinato e precario, il conducente che immaginava di spezzare le catene del percorso obbligato, e, invece, si era chiuso dentro per non doversi interrogare su quella manodopera della povertà che popolava il convoglio. Un’umanità stanca e desolata si lasciava andare nella speranza disattesa di un Natale che di venire non voleva proprio saperne, unica testimonianza dell’inverno il freddo nell’intercapedine tra carne e ossa, tra fiducia e domani, tra sogno e realtà. Nessuna intermittenza, nessun regalo, solo un fagotto legato a un sedile per non farlo cadere, per non urtare in alcun modo quel piccolo dalle manine perfette, lavori di natura benfatti, con le palme rosate che sembravano frutti appena sbucciati in contrasto con quella notte, ancora lucida dei liquidi della nascita, ancora sporca dei resti di placenta e di cordone tagliato con la fretta della fuga un po’ più in alto dell’ernia ombelicale. La condanna dei binari a cui non ci si poteva sottrarre, come a bordo di un’Open Arms qualsiasi, il contrario di una nostalgia che aveva il sapore del miracolo di una nascita e la consapevolezza dell’inadeguatezza di un mondo che non sarebbe cambiato.
Doveva avercela con il lettore Giosuè Calaciura quando ha composto le 107 pagine del suo ultimo libro edito da Sellerio, Il tram di Natale. Non è difficile immaginarlo mentre si apprestava a sistemare il cavalletto, la tela pulita, i colori mescolati per una pennellata solitaria e disperata, struggente come la felicità o la sua illusione. L’idea di descrivere una notte tradizionalmente magica e la necessità di non potersi prendere una pausa dall’attualità, da un contesto socio-politico dimentico dell’uomo e della sua umanità. Nemmeno la bellezza narrativa tipica della sua scrittura ha saputo arrestarsi dinanzi a un grido di verità taciuta, di miseria stanca di essere ignorata, di impotenza e rabbia. Come le storie narrate, piccoli racconti all’interno di uno più grande, microcosmi a sé stanti ma parte integrante di un universo racchiuso su un mezzo di fortuna che si addentrava nelle periferie dello stare al mondo. Un quotidiano quasi blasfemo e una santità – o, semplicemente, il bisogno di essa – avvolta da vecchie coperte.
A Natale, dicono, siamo tutti più buoni. Di certo, però, non lo è stato l’autore siciliano, non lo sono stati i personaggi di cui non ci ha raccontato, quelli a cui non ha aperto le porte del tram, quelli che, nelle stesse ore, hanno lasciato più di trecento persone in balia delle acque e del destino e che, ancora oggi, ne ignorano altre quarantanove. Non interessava, a Calaciura, lanciarci un messaggio di speranza, narrarci di una redenzione inverosimile o presentarci un novello Scrooge. Di Dickens, il cui riferimento è ovvio e inevitabile, ha rubato la denuncia, l’espediente letterario che non è altro che un affresco delle prime pagine di quei giornali che non si sfogliano più. È questo, in fondo, il ruolo che lo scrittore ha scelto di interpretare e di affidare alla propria parola, una parola impegnata e mai banale, figlia di un tempo che segna e non insegna. E così, una corsa sul mezzo pubblico che ispirò anche Fernando Pessoa ha acquisito un valore nuovo, romantico e decadente al tempo stesso, come quel mago che non ricordava più le sue magie e il mercato dell’amore a basso costo diviso tra il desiderio dell’uno, il cliente, e la fame dell’altra, la prostituta. Come la carota custodita in tasca per un coniglio che avrebbe potuto soddisfare uno stomaco disabituato a un pasto completo e l’avidità di chi non voleva comunque rinunciarvi.
Il Natale al di là di quella copertina blu, allora, non si è trasformato in un messaggio di finta speranza, ma in una realistica narrazione. Giosuè Calaciura ha strappato via i fogli dei quotidiani che tappezzavano la cabina del conduttore intimandogli di non volgere lo sguardo altrove. «Guarda!», gli ha detto, perché è più facile proseguire dritti sui binari prefissati da qualcun altro piuttosto che rispondere alle domande di povertà economica e umana. Perché a quel tram era ed è possibile – ancora – dare una direzione, la propria. O forse no?