Si celebra oggi la Giornata internazionale in supporto alle vittime di tortura, istituita dalle Nazioni Unite nel 1997. La scelta di questa data non è casuale: il 26 giugno 1984 entrava in vigore la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, ratificata al momento da 173 Paesi. In questo stesso giorno, inoltre, nel 1948 veniva siglata la Carta delle Nazioni Unite, il primo documento contenente l’obbligo per gli Stati di promuovere e incoraggiare il rispetto dei diritti umani.
Potrebbe suonare quasi superfluo, eppure è importante ribadire che la strada da fare è ancora molta e sono tuttora decine di migliaia le persone nel mondo sottoposte a metodi rudimentali o sofisticati di tortura che troppi governi continuano a utilizzare per estorcere informazioni, ottenere confessioni o mettere a tacere il dissenso. Governi e Paesi più e meno lontani – ma con i quali anche gli Stati più civili stringono accordi milionari, lasciando che continuino a perpetrare le violenze in casa loro – ma anche, checché non piaccia ammetterlo, luoghi come l’Italia, dove mai si immaginerebbe che vigano ancora modalità che ci appaiono tipicamente dittatoriali. E, infatti, lo sono.
Fin dal lancio della campagna Stop alla tortura del 13 maggio 2014, Amnesty International ha pubblicato rapporti su Libia, Egitto, Marocco, Uzbekistan, Messico, Filippine e molte altre parti del mondo in cui abusi e sevizie sono praticati in un clima di complessiva impunità. Paesi in cui quasi ci sembra normale che sia così. Eppure, dimentichiamo che l’Italia, pur avendo sottoscritto la Convenzione nel 1984, ha introdotto il reato di tortura solo nel 2017, a più di trent’anni dalla ratifica e nonostante le numerose sollecitazioni provenienti da più parti. Una legge decisamente sommaria che, a leggerla, non appare così abominevole come, in realtà, è e dovrebbe essere.
Ventinove anni dopo la prima proposta, infatti, entrambe le Camere dello Stivale hanno approvato un testo decisamente addolcito nella maggior parte dei punti e completamente stravolto rispetto all’originale (qui spieghiamo il perché), generando molteplici insoddisfazioni persino nei promotori che, nel corso della travagliata navetta tra i senatori e i deputati, hanno visto venire alla luce una legge del tutto nuova. A suscitare grossa amarezza, ovviamente, il cambio di rotta netto che ha reso quasi blanda, e in alcuni casi superflua, la misura stessa.
Quello di tortura, infatti, da reato proprio – riferito soltanto a colui che riveste una determinata qualifica o in possesso di uno status precisato dalla norma o di un requisito necessario per la commissione dell’illecito – si è trasformato in reato comune – possibilmente commesso da chiunque – alleggerendo, dunque, il peso della figura delle forze dell’ordine, per le quali, in modo particolare e non in qualità di aggravante ma di causa principale, era nata la necessità di un simile provvedimento.
A richiederlo a gran voce, infatti, era stata negli anni la Corte di Strasburgo che aveva sollecitato (e condannato) l’Italia a intervenire – applicando la Convenzione ratificata, per l’appunto – in merito alla macelleria messicana della Diaz e di Bolzaneto. Ma il nostro Paese, che dei diritti se n’è sempre infischiato, aveva lasciato decorrere i tempi, affinché tutti i reati contestati agli agenti decadessero e, tra le fila delle forze dell’ordine, potessero rientrare (ed essere promossi) proprio coloro che di quella mattanza ancora portano il sangue sulle mani e sulla divisa.
D’altro canto, lo stesso testo approvato con circa undicimila giorni di ritardo rispetto a quel 26 giugno del 1984 è in completo disaccordo con la Convenzione delle Nazioni Unite secondo la quale il reato di tortura dovrebbe punire specificamente i casi di abuso di potere. Il testo internazionale parla, poi, di trattamenti inumani o degradanti e non di più condotte come sostenuto nella normativa attualmente vigente da noi, una differenza non così sottile a rimarcare quel complesso di sudditanza di quasi tutta la classe politica nei confronti delle forze di polizia. Lo stiamo riscontrando, d’altro canto, anche in queste settimane.
Come sappiamo, venticinque tra poliziotti e poliziotte della questura di Verona sono stati accusati, con diverse responsabilità, di reati di tortura, lesioni, falso in atto pubblico, abuso di autorità, omissione di atti d’ufficio e abuso di ufficio. Eppure, la Premier Giorgia Meloni, che in più occasioni ha chiesto l’abolizione del reato di tortura perché non permettere alle forze dell’ordine di lavorare bene, non si è espressa. Lo stesso Matteo Salvini, che invece è sempre pronto a indossare una divisa, ha optato per il silenzio, mentre il Ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha parlato di fatti di enorme gravità.
Il partito della Presidente del Consiglio, d’altra parte, è lo stesso che lo scorso marzo ha presentato una proposta di legge per abrogare gli articoli 613-bis e 613-ter del Codice Penale che, se non fosse stato dichiarato il lutto nazionale in occasione della scomparsa di Silvio Berlusconi, sarebbe già stata discussa il 7 giugno. Il discorso, dunque, è solo momentaneamente rinviato, ma non lascia presagire nulla di buono.
E nulla di buono, in termini di diritti, può venire in un Paese in cui – come ben ha sintetizzato Luigi Manconi, che nel 2013 aveva presentato il ddl poi stravolto – si preferisce che i corpi di polizia restino così come sono: compatti e omogenei, gerarchicamente immobilizzati e scarsissimamente permeabili a quanto accade nella società e, di conseguenza, sempre pronti a tutelare gli interessi di quanti tra loro commettono reati, ricorrono a trattamenti inumani o degradanti, esercitano la tortura. E, invece, sarebbe interesse dello Stato democratico indurre i corpi di polizia ad autoriformarsi, a sottoporsi a un processo di verifica delle proprie convinzioni democratiche, ad acquisire consapevolezza dei rischi che quel mestiere, inevitabilmente, comporta. Ciò potrebbe anche produrre qualche crisi interna, determinare fratture ideologiche, creare confronti aspri: ma è essenziale che la stragrande maggioranza di poliziotti e carabinieri si differenzi dalle esigue minoranze che non rispettano le leggi, i diritti e le garanzie del cittadino e che spesso sono tentati da ideologie fascistoidi e razzistiche.
Certo, che la denuncia di quanto accaduto nelle stanze della questura di Verona sia partita dall’interno è certamente una buona notizia, tuttavia non basta. Non basta perché la tortura esisteva già prima dell’introduzione del reato e continuerà a esistere anche quando quella che per noi non è una buona legge verrà quasi sicuramente ritoccata. Cancellata forse, resa più blanda senza dubbio: lo scopo è evitare che il nostro sistema di “valori” vada in frantumi. Un sistema che vede l’ex Ministro dell’Interno politicizzare le forze dell’ordine affinché la polizia sia libera di lavorare. Un messaggio, il suo, che attenta alla democrazia e ai diritti umani a tutela di un uso arbitrario della violenza psicofisica che chi simboleggia lo Stato talvolta crede di poter esercitare.
A distanza di sei anni dall’introduzione del reato – ha scritto in queste ore l’Associazione Antigone – sono più di dieci i procedimenti e i processi in corso dove il reato è contestato e oltre duecento le persone indagate, imputate o già condannate. Nella maggior parte dei casi i fatti sarebbero avvenuti all’interno delle carceri. Ma non sempre. Il processo più importante è senza dubbio quello in corso per la “mattanza” di Santa Maria Capua Vetere avvenuta nell’aprile del 2020. Nel frattempo sono arrivate anche le prime condanne, tutte da confermare con sentenze definitive. La prima, quella a carico di un agente di polizia penitenziario in servizio, all’epoca dei fatti, nel carcere di Ferrara. La seconda, quella che ha riguardato quindici agenti del carcere di San Gimignano. Avere una legge non è importante solo per poterla impugnare nei tribunali. Ma anche a livello culturale. Poter parlare di tortura, poter chiamare dei fatti con il loro nome crea anticorpi a livello di opinione pubblica, ma anche tra gli addetti ai lavori.
Se da un lato è indubbiamente vero, dall’altro non si può non interrogarsi sul perché, ancora oggi, si fatichi così tanto a difendersi da chi dovrebbe difenderci: forze di polizia, forze politiche, addirittura stampa, spesso incapaci – perché volutamente tali – di ammettere che non siamo dinanzi a un cesto di mele marce ma che marcio è l’intero frutteto. Che la tortura, nel XXI secolo, si esercita ancora con supplizi di tipo medievale.
Il torturatore usa in primo luogo il proprio corpo (per picchiare, strangolare, stuprare), poi ciò che ha a portata di mano (attrezzi di falegnameria, bastoni, alimenti urticanti, stracci imbevuti di sostanze chimiche, rudimentali congegni elettrici, materiali arroventati ecc.) o fabbrica strumenti terrificanti, congegnati volutamente per infliggere il massimo della sofferenza possibile. Ma vi è anche una forma di tortura più sofisticata, che non lascia ferite o segni visibili sul corpo ma che devasta la mente, fino a farla impazzire e a rendere non credibile la vittima, spiega Amnesty International.
È difficile dire se faccia più male la tortura fisica o uno stato di perenne incertezza e angoscia sul proprio destino; se lasci più segni una scarica elettrica o l’ascolto delle urla di chi sta subendo torture nella stanza accanto; se annichilisca più una sevizia sessuale o la minaccia che tali sevizie verranno subite dai propri congiunti. È più facile dire che il riconoscimento di questo reato, la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, come tutti i diritti, non sono eterni. Non se si avallano e scelgono politiche che a quei metodi e a quei sistemi valoriali strizzano l’occhio, si rifanno, solleticano le mani.
Se a qualcosa servono le giornate internazionali di… è a questo: a ricordarci che nessuna lotta si è combattuta ed esaurita nel suo tempo. Che finché siamo vivi, dobbiamo combattere per restarlo, per essere noi i padroni del nostro destino. Quel testo è rimasto purtroppo un pezzo di carta. Il numero dei paesi che l’hanno ratificato, impegnandosi a prevenire e punire la tortura, è solo di poco superiore a quello dei paesi in cui è praticata.