Il 1° gennaio 2003 se ne andava – troppo presto – Giorgio Gaber, cantautore italiano tra i più peculiari di sempre. Al suo talento, però, preferiamo rendere omaggio oggi, giorno della sua venuta al mondo, giorno in cui avrebbe compiuto 82 anni. Musicista, autore e attore teatrale, commediografo, cabarettista. Forse qualsiasi definizione risulterebbe riduttiva, poiché il Signor G – così era chiamato – è stato un artista a tutto tondo, noto per aver lanciato, assieme a Sandro Luporini, il genere espressivo del Teatro Canzone e la figura del cantattore, coadiuvando intrattenimento a impegno politico e sociale.
Giorgio Gaberščik all’anagrafe, giovane milanese, imparò a suonare la chitarra per curare una lieve paralisi alla mano. Cominciò quindi a esibirsi in locali come l’Hot Club e il Santa Tecla, dove conobbe personalità del calibro di Adriano Celentano, Enzo Jannacci, Luigi Tenco e Mogol. Proprio grazie a quest’ultimo, incise alla Ricordi il suo primo disco. Era l’inizio di una grandiosa carriera. In gara al Festival di Sanremo per ben quattro edizioni, programmi televisivi noti all’epoca, come Il Musichiere, Canzonissima o il Cantagiro, lo resero un vero e proprio fenomeno del momento, con brani ormai iconici quali Ciao, ti dirò, Non arrossire, Il Riccardo, La ballata del Cerutti, Torpedo blu, Barbera e champagne. Brillanti rock alternati a ballate romantiche, a sagaci brani ironici che racchiudevano spesso sottotesti ben più profondi. Nel mentre, sposò Ombretta Colli, storica compagna che gli restò accanto fino alla fine.
Al culmine del suo successo, negli anni Settanta, Gaber cominciò a sentire il disagio di un ruolo ingabbiante. Avvertiva la necessità di sperimentare nuovi percorsi, di un rapporto più diretto con il pubblico, unito alla volontà di esprimere liberamente le proprie idee senza i condizionamenti imposti dal mercato discografico e dal mezzo televisivo: «Mi nauseava un po’ una certa formula – disse in un’intervista – mi stavano strette le sue limitazioni di censura, di linguaggio, di espressività, e allora mi dissi, d’accordo, ho fatto questo lavoro e ho avuto successo, ma ora a questo successo vorrei porre delle condizioni». Il palcoscenico lo attirava da tempo, soprattutto dopo la conoscenza del teatro di Dario Fo, con cui collaborò in Il mio amico Aldo: giunse l’era del cosiddetto Teatro Canzone. Si trattava di un genere artistico estremamente distintivo, che fondeva musica e recitazione in una performance più schietta e improntata quasi all’approccio dialogico con lo spettatore, quasi un confronto.
Gaber divenne il Signor G, alter ego di se stesso e incarnazione delle nevrosi dell’uomo moderno. «Il signor G – spiegò – dove quella G voleva anche dire “gente”, era un signore un po’ anonimo, in bilico tra un desiderio di reale cambiamento e un inserimento nella società». Consacrato dagli spettacoli insieme a Mina, si esibì nei maggiori teatri italiani, privo di scenografia, perlopiù da solo, interprete di canzoni intermezzate da monologhi e riflessioni. Voleva raccontare il mondo contemporaneo, le sue contraddizioni, l’ipocrisia della classe borghese e la falsa coscienza, le paturnie umane, il capitalismo, la politica, l’alienazione. Voleva usare il potere dell’ironia, che fino ad allora lo aveva contraddistinto, per smuovere le coscienze.
Nel 1972 andò in scena Dialogo tra un impegnato e un non so, descritto da Gaber come da una parte il poeta diciamo così borghese, coi suoi problemi, i suoi dolori, le sue cose: un tipo un po’ compiaciuto, un po’ narcisistico. Dall’altra, l’uomo che si è liberato del suo fardello individuale per dare un senso totale, collettivo alla propria vita. Celebri i brani La libertà e Lo shampoo, ironica metafora dell’assenza di pensiero. Con Far finta di esser sani, si discusse l’utopia di far coincidere ideali e quotidianità, concludendo la serie di spettacoli in un ospedale psichiatrico. Pochi anni dopo – sempre spalleggiato dal collaboratore e paroliere Luporini – fu il turno di Anche per oggi non si vola, critica all’incapacità di proporre cambiamenti.
La svolta avvenne con Polli d’allevamento, nel 1978: Gaber si scagliò contro il conformismo giovanile e sociale in generale, deluso verso una vana battaglia contro il sistema, avventandosi anche contro i maggiori partiti politici. Ciò gli causò, durante la brutale performance di Quando è moda è moda, il lancio sul palco di svariati oggetti. Anche la controversa Io se fossi Dio, scritta dopo l’assassinio di Aldo Moro, non fu pubblicata subito poiché le case discografiche avevano paura a esporsi. Neppure con Qualcuno era comunista le mandò a dire, ricordata tutt’oggi come sagace analisi su aspettative e delusioni di ciò che aveva rappresentato per lui e per tanti il comunismo. Il Signor G mostrava una realtà scomoda e continuamente attuale e i suoi brani taglienti, irriverenti, non erano certo semplice intrattenimento. In lui risiedeva lo splendido fardello del libero pensatore, alla costante ricerca artistica e filosofica.
La critica proseguì negli anni Novanta con E pensare che c’era il pensiero, Un’idiozia conquistata a fatica e, nel 2001, La mia generazione ha perso, contenente il già celebre brano Destra-Sinistra, una messa alla berlina dei luoghi comuni sulle due fazioni politiche. Io non mi sento italiano, invece, venne pubblicato postumo, poiché Gaber si spense a causa di una lunga battaglia contro un cancro ai polmoni. Eppure, pensiamo, sarebbe riuscito a fare della pungente ironia persino sulla sua stessa morte. Omaggiato da una folta schiera di artisti italiani e non solo, il Signor G ha indubbiamente rivoluzionato la storia della musica e del teatro italiani, entrando in empatia con una platea attiva senza mai sfociare in paternalismi. Disse lui stesso: «Credo che il pubblico mi riconosca una certa onestà intellettuale. Non sono né un filosofo né un politico, ma una persona che si sforza di restituire, sotto forma di spettacolo, le percezioni, gli umori, i segnali che avverte nell’aria».
Distinto da un’attraente presenza scenica, da una certa eleganza unita a carisma, la forza delle parole, della mimica facciale e gestuale, Gaber ha insegnato a tutti noi che nella vita non esistono verità assolute, che l’arma più potente risiede nel pensiero critico e nella capacità di dubitare continuamente. Spirito libero e controcorrente, provocatore, non smise mai di affrontare con ironia e intelligenza i dubbi dell’esistenza, combattendo le inquietudini e le incongruenze umane. Gladiatore del suo tempo, in un tempo non suo. Una malinconia che traspare, come ogni artista, dietro quel sorriso genuino e coraggioso. No, Signor G, non hai perso.
Non insegnate ai bambini, non insegnate la vostra morale, è così stanca e malata, potrebbe far male […] Non divulgate illusioni sociali, non gli riempite il futuro di vecchi ideali […] Ma se proprio volete raccontategli il sogno di un’antica speranza. Giro giro tondo, cambia il mondo…