È un romanzo straordinario la vita di Gianni Minà, raccolta – per la prima volta – nella biografia pubblicata da minimum fax con il titolo di Storia di un boxeur latino, definizione che Paolo Conte diede del giornalista, il racconto di una carriera irripetibile che si muove su una linea del tempo di oltre sessant’anni. Da the greatest Muhammad Ali a Pietro Mennea, dai fab four di Liverpool, i Beatles, al samba di Vinicius e Toquinho, passando per Fidel Castro, Osvaldo Soriano e Gabriel García Márquez, i nomi delle più grandi icone del secolo Novecento sono raccolti nell’agenda di Gianni Minà, la stessa che Massimo Troisi – altro suo grande amico ed estimatore – diceva di invidiare: io lo invidio. Lo invidio per la sua agendina telefonica.
Difficile non lasciarsi incantare dai viaggi del documentarista, dalla malia dei personaggi che incrocia sul suo cammino mai casuale, quasi impossibile non cedere alla riverenza verso il collega, punto di riferimento per chiunque – dal sottoscritto a tutta la redazione – guardi al giornalismo così come lui stesso lo descrive, un altro modo, un modo formidabile, per nutrire la società dove vivi, per trasmettere la stessa passione (dell’insegnamento – ndr). Tuttavia, è proprio la lezione che questo libro affascinante trasmette a meritare di più di un elogio senza condizioni.
Il reporter apre al lettore le porte di casa propria, il suo personale album dei ricordi, lo fa con l’eleganza – appunto – del boxeur, del più grande di tutti i tempi, si muove con la sua stessa leggerezza e potenza, volo come una farfalla, pungo come un’ape, come ballando sulla musica dei jazzisti che ascolta con fascino e stupore. Minà racconta le pagine più intime della propria infanzia – dove dà il meglio –, tirandole fuori dalla polvere delle macerie, quelle del terremoto che rase al suolo Messina nel 1908 in cui scomparve il papà di sua madre, Giovanni (Gianni), e le successive dei bombardamenti del 13 luglio 1943, quando perse suo nonno Enzo, ferroviere trasferito ad Asti dalla Sicilia, quando con questa scelta si cercava di unire l’Italia, e non era un’idea sbagliata.
Le immagini più intense raccontano, poi, del Match del Secolo, della boxe come metafora della vita, di sfide epiche che sono ribalta di battaglie combattute oltre il ring per l’affermazione di diritti civili. E ancora, il primo abbraccio sudato, commovente, con Pietro Mennea al traguardo delle Universiadi del 1979 a Città del Messico, quando il velocista pugliese fece segnare il record mondiale dei 200 metri con il tempo di 19”72, ancora oggi primato europeo, e Minà, tradito dall’entusiasmo – e da una nuova tecnologia in dotazione – si perse l’urlo dell’uomo più veloce del mondo, facendoglielo ripetere in favore di telecamera pochi istanti dopo.
È impossibile non sognare a occhi aperti con la biografia di Gianni Minà, non immaginarsi al suo fianco, a bordo di almeno uno dei tanti aerei che lo hanno portato dalle notizie che l’intero pianeta gli offriva, in particolar modo le Americhe, con l’intervista fiume di quindici ore a Fidel Castro a suggellare l’impegno del detective della diversità, come egli stesso si descrive, perché andando in giro ti rendi conto di quant’è varia la voce del mondo, screditando l’idiozia di qualsiasi integralismo e di qualsiasi razzismo.
La storia di un boxeur latino è scritta con la complicità di Fabio Stassi, con il quale Minà dimostra di aver trovato un’empatia fuori dal comune, tanto da prendergli in prestito una celebre citazione nelle battute conclusive del libro (tratta da L’ultimo ballo di Charlot, Sellerio – ndr). Le sue parole si mescolano a quelle dello scrittore siciliano nei capitoli dedicati alla musica brasiliana, a Vinicius e Toquinho, a quella vita suonata in levare, la bossa nova, il coraggio di osare sulle dissonanze che sembrano stonature. La bossa nova non conta più di 80 battiti a minuto, che è poi il ritmo del cuore, […] una chitarra sempre in squilibrio sul tempo; un tratto di funambolismo.
Il racconto dell’Argentina del generale Videla fotografa, infine, il mondo nella direzione che stava prendendo e che non ha mai smesso di cavalcare, verso la preclusione della verità, l’unica vera ragione che ha messo fine alla presenza di Gianni Minà in televisione e lo ha portato, poi, a chiudere con la carriera di cronista.
Così, il finale – vero rimpianto dell’opera – risulta affrettato, come spinto da quel sentimento che nel 1951 J.D. Salinger scriveva ne Il giovane Holden come Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, finisce che sentite la mancanza di tutti. Deve aver sentito la mancanza, Minà, di quanti lo hanno amato, coperto d’affetto per le sue maniere gentili, quei modi che non compromettevano, però, la straordinaria competenza che metteva a disposizione degli attori a cui rivolgeva il microfono. O, forse, si è sentito vittima della paura che un poco a volte mi prende, quando non me lo aspetto, vittima di quel desiderio di quelle città in cui vorrei tornare a rinascere.
È un’eredità inestimabile la biografia di Gianni Minà. Da giornalista, appassionato di politica e sport, dell’agonismo come simbolo dell’esistenza, della musica come colonna sonora di qualunque avvenimento valga la pena di essere documentato e narrato, avrei voluto scrivere è una staffetta, ma sono conscio – e lo affermo con grande amarezza – che nessun altro potrà mai godere della sua libertà.
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