Pubblicato dalle edizioni nottetempo, il primo romanzo di Giada Biaggi, Il bikini di Sylvia Plath, sta già facendo parlare di sé. Nata a Legnano, giornalista, laureata con lode in filosofia, modella e podcaster, Giada unisce in una sola figura anime solo apparentemente contraddittorie. Fa dell’ironia pungente la sua arma, giocando con il suo background accademico e con la passione per la moda e il cinema.
Il romanzo, nato durante la pandemia, ci catapulta da Eva, dottoranda in filosofia alle prese con la costruzione chirurgica di una vita che sia aesthetic ma anche consapevole delle frivolezze automaticamente associate alle donne di bell’aspetto da parte degli uomini. Sarà affiancata da diversi personaggi maschili e maschilisti con i quali intesserà rapporti di natura diversa, tutti accomunati da un esplicito erotismo che è una delle colonne portanti dell’intero libro. Erotismo “moderno” perché veicolato dall’uso di internet, soprattutto di social come Instagram e Tinder o piattaforme quali YouTube e YouPorn, strumenti che Eva utilizza ampiamente senza sentirsene in colpa. Ne abbiamo parlato con l’autrice.
Prima di entrare nel vivo dell’intervista, parlaci un po’ di Giada Biaggi.
«Vengo da una formazione molto accademica, infatti ho studiato filosofia alla Cattolica e alla Ca’ Foscari e frequentato un master a Berlino in filosofia dell’arte però, per quanto mi soddisfacesse quel tipo di carriera, sentivo di avere una forte passione per la scrittura. Sono diventata giornalista e ho avuto la fortuna di collaborare con diverse testate come Cosmopolitan ed Elle per alcuni anni e poi, durante la pandemia, ho lanciato un podcast dal titolo Philosophy & the City (chiara reference alla serie con protagonista Carrie Bradshaw) che ironizzava sui filosofi più famosi e la loro vita sessuale – ad esempio Nietzsche era uno sfigato a cui non la dava nessuna – e, contro ogni mia aspettativa, ha avuto molto successo, perché nato come una cosa goliardica che registravo con il mio ex fidanzato bevendo vino confinati in casa. In contemporanea ho iniziato a scrivere questo romanzo, più un tentativo alla cieca, e finita l’emergenza ho messo su degli spettacoli di stand-up comedy. La pandemia quindi per me è stato un po’ lo scoperchiare il vaso di Pandora della creatività».
Come sei arrivata alla pubblicazione del libro? Come hai conosciuto poi Alessandro Gazoia di nottetempo che lo ha editato e pubblicato?
«L’avevo inizialmente presentato a Fandango, ma evidentemente il genere ancora ibrido non incontrava il loro gusto editoriale. Non avevo minimamente pensato a nottetempo in un primo momento perché mi pareva troppo ambizioso da parte mia propormi a una casa editrice che nel suo catalogo ha pubblicazioni di Susan Sontag e libri di una certa caratura letteraria come La cronologia dell’acqua di Lidia Yuknavitch. Fortuna ha voluto che io fossi molto amica di Elisa Cuter, che ha pubblicato un bellissimo libro con minimum fax intitolato Ripartire dal desiderio, ed è stata proprio lei a introdurmi ad Alessandro Gazoia (che seguiva anche la mia newsletter Daddy Issue), alleato fondamentale per far diventare il libro quello che è ora. Con lui si è creata una bella sinergia, mai avrei pensato di editare un romanzo sul sexting con un uomo adulto, mi ha permesso di renderlo più letterario, più coerente, specialmente nella definizione e descrizione dei personaggi maschili».
Qualcuno ha definito il genere del libro “strano”, ma più che altro direi che è un libro che necessita di una lettura attenta. Tra le pagine ci sono numerosissimi rimandi a filosofi, scrittori, autori (ma anche attori, soubrette e attrici porno) molto specifici, oserei definirli “da addetti ai lavori”. Non temi che il lettore possa essere confuso o non capire cosa tu voglia dire, semplicemente perché potrebbe non conoscerli?
«Le citazioni ai nomi di cui parli sono un po’ ironiche anche quelle, le ho volute inserire rifacendomi al movimento cinematografico americano Mumblecore, ovvero ironia sull’ironia, rimuginare continuamente sulle parole, tant’è che il mio libro sfotte sostanzialmente quelli che usano citazioni in dosi massicce. Io stessa come autrice calco la mano sul modo di parlare e citare della protagonista Eva, un po’ milanese, un po’ eccessivamente esterofila. Le persone che studiano sono così, non riescono a non fare name dropping, quindi il libro vuole essere mimetico rispetto a un certo modo di incasellare i pensieri e le conoscenze. È un po’ come guardare i film di Woody Allen senza sapere chi è Freud. Inoltre, tema fondamentale del mio romanzo, esiste internet, quindi se il lettore non sa cos’è, ad esempio, la Prospettiva Nevski, può cercarla su Google, come ho fatto io a sedici anni quando cominciavo ad ascoltare Battiato. Penso che per godere del libro non sia necessario capire tutte le citazioni. Detto questo mia mamma grazie al romanzo ha scoperto chi è Sylvia Plath».
Quindi Eva si divide tra accademismi, ma non disdegna il versante più “pop” mandando foto di tette in chat di Instagram. La sua è una realtà o è tutto frutto della sua immaginazione?
«Una delle possibili interpretazioni del libro è che sia tutto un sogno. Le discrasie presenti nella trama o il fatto che il papà di Eva sia un professore universitario esperto in nazismo e il papà di Sylvia Plath fosse filo-nazista potrebbero rendere Eva una reincarnazione onirica di Sylvia Plath».
Un aspetto che balza subito all’attenzione del lettore è questa impronta aesthetic della vita di Eva. Tu la descrivi come una persona che non contempla selfie sgranati e parole raffazzonate. Come fosse una fotografia o parte di una sequenza da serie tv, ama disporre sul proprio bidet abbinamenti letterari diversissimi tra loro, ad esempio Novella 2000 e Infinite Jest di David Foster Wallace. O immagina un’esperienza parigina esteticamente e fisicamente appagante, passeggiando lungo la Senna, fumando sigarette, con tenori conversazionali altissimi (per citare). Quanto hai lavorato su questa costruzione estetica che, restando in tema, possiamo ricondurre all’inventore del termine Baumgarten?
«Per me è una cosa molto naturale perché mi piace pensare di essere un’esteta, ho sempre pensato per immagini e il mio lavoro di sceneggiatrice ora mi aiuta molto a continuare a farlo (al momento sto lavorando a una serie tv). Trasporre questa forma mentis nel libro non è stato particolarmente complicato, al contrario, non sarei capace di produrre una scrittura minimal. Credo che la vera forma di narrazione, a oggi, siano le serie tv, rendere il libro simile a queste permette una lettura più scorrevole. Tra l’altro, mi è stato detto da più persone che una trasposizione cinematografica del romanzo non sarebbe una cattiva idea, probabilmente grazie a questa costruzione intenzionale alla base. Alcune scene del libro sono parecchio idiosincratiche, a sublimare certi momenti anche negativi che se messi in una cornice piacevole a livello estetico diventano meno brutti e più sopportabili (ad esempio, vestirsi bene a un funerale), quindi credo del potere salvifico dell’estetica in generale».
C’è una serie di Spike Lee, She’s gotta have it, che mi ha molto ricordato la vita della tua protagonista. Ci confessi se te ne sei ispirata?
«La conosco e l’ho vista, ma sono altre le serie che ho guardato per il romanzo, una su tutte Fleabag di Phoebe Waller-Bridge e The chair (in italiano, La direttrice) con protagonista Sandra Oh già vista in Grey’s Anatomy. In quest’ultima soprattutto vi è quella lotta al patriarcato negazionista che è perno della vita di Eva nel romanzo, il mondo accademico pieno di cliché in cui il professore alcolizzato con la maglietta dei Joy Division va a letto con le studentesse e così via. La serie di Spike Lee, per quanto notevole, manca di un elemento per me fondamentale, ovvero internet e il suo uso».
E, dunque, visto che si parla anche di sessismo, credi che il tuo libro sia più adatto a un pubblico femminile o a uno maschile? Chi potrebbe apprezzarlo e capirlo meglio?
«Credo più un pubblico femminile e un pubblico queer. Agli uomini forse servirebbe di più leggerlo perché potrebbero vivere la lettura come un continuo j’accuse, raccontando la crisi del maschio etero nelle grandi città come Milano e nelle relazioni in senso ampio. Ci tengo a dire però che il mio non è un libro femminista, ma se fossi un uomo non l’avrei scritto, perché non sarei mai riuscito a entrare nella psicologia femminile».
Quindi hanno ragione quando dicono che la mente delle donne è un labirinto impenetrabile?
«Sì, perché se sei uomo di certe cose neanche ti accorgi, motivo per cui, faccio un esempio, in nessun film diretto da un uomo quando a una donna arriva il ciclo si vede l’uso della carta igienica. E non è una critica questa, non raccontano perché semplicemente non sanno. Tra l’altro nel libro c’è una polemica molto sottile sul pinkwashing, ovvero quella promozione falsa di prodotti o simili che fa finta di interessarsi all’emancipazione femminile o al mondo gay».
Non ritengo che il tuo sia un libro contro gli uomini. Tu cosa rispondi invece a chi sostiene il contrario?
«Ho solo descritto diversi “prototipi” maschili. È vero che Ludovico, uno dei personaggi principali, è il ritratto del maschilismo, ma Eva riceve l’aiuto – allucinato, certo, ma pur sempre un aiuto – dei suoi amati filosofi sotto forma di fantasmi o visioni, e anche di altri esponenti del sesso opposto che incarnano un po’ uno spirito salvifico e positivo. Per quanto riguarda il padre di Eva non voglio fare spoiler, ma tra di loro ci sono degli irrisolti detti e non detti (e qui mi ricollego al discorso di prima del sogno) che ci tenevo a inserire ma a non rendere espliciti. Il romanzo non va né a favore né contro gli uomini, è una storia. Sorrentino nei suoi film rende le donne o poco di buono o madri o suore e nessuno gli dice che i suoi film sono maschilisti. L’arte delle donne non deve essere per forza politica, è arte e basta e va trattata come tale, a prescindere da sterili polemiche».
Trovi che le belle donne, come Eva, debbano faticare molto di più per dimostrare di essere anche intelligenti?
«Per bella donna io intendo anche una donna curata o amante della moda. Anche un po’ il mito della scrittrice bella e intelligente che alla fine si suicida ha stancato perché nel mondo contemporaneo ancora non è contemplato quel modello di donna di bell’aspetto e di bell’intelletto che però non sia anche pazza. Cioè, il binomio brutta-capace e bella-stupida (o bella-capace-ma-fuori-di-testa) è diventato demodé. Esistono donne che si collocano a metà tra Sylvia Plath e Ilary Blasi».
E tu pensi di essere una di queste, detentrice del giusto mix?
«Sinceramente sì (chiaramente si scherza!). Quello che è vero, però, è che spero di fare un po’ da apripista a quel femminismo più anglosassone, più ironico e leggero. Trovo che spesso quando si parla di femminismo sia tutto un dramma, una feticizzazione della vittima che risulta controproducente, così gli uomini smettono di ascoltare, anche quando ben disposti, perché non è sempre tutto un abuso, non è sempre tutto un j’accuse. Concentrandomi sul mio romanzo, ad esempio, a me non interessa definire quanto sia femminista da uno a dieci, ma far notare che rientra nel genere rosa, che ci sono delle canzoni, degli elenchi puntati, che ha un prologo e un epilogo, è questo che interessa a me, parlare del libro e di com’è fatto e non di quanto sia pro femminismo».
Ci tieni a sottolineare qualche altro punto che ti sta particolarmente a cuore?
«Allora io dico a tutti i giornalisti che sono la “Sally Rooney italiana” (si scherza anche qui!). Spero di aver raccontato un pezzo della mia generazione. Non c’è nulla di alternativo nello sdoganare il sexting o la masturbazione di una ragazza di ventisette anni, è solo una fotografia di una persona comunissima sostanzialmente in formazione. Non fragile, ma in via di cambiamento, com’è normale che sia a quell’età.
Mi piace pensare che il libro sia buono a livello stilistico, che sia un po’ nuovo, e quindi mi basta questo».