Sfortunata, umiliata, abbandonata: è questa Genova oggi, una città a cui è stato promesso tutto e a cui niente, ancora, è stato restituito. Sono passati mesi da quel fatale giorno, da quel crollo che l’ha spezzata in due, da quel maledetto ponte sgretolatosi sulle vite di chi non c’è più e di chi è rimasto senza più essere lo stesso. Sono passati mesi e le promesse sono andate al vento, come quelle fatte agli alluvionati, ai terremotati, a tutti i poveri disgraziati di questa Italia incurante e corrotta, dove la malavita si veste da politica e la politica si sveste di dignità. Il capoluogo ligure, però, non ha dimenticato la sua natura, la salsedine ancora ne invade le strade, si attacca ai vestiti, alle panchine, profuma la pelle. Nonostante il dolore, nonostante le delusioni, il porto dell’anima di chi ne abita le vie non è mai stato chiuso.
Faber, d’altronde, ce lo aveva detto già: Genova è anche gli amici che da lontano ti vedono crescere e invecchiare, per esempio i pescatori, che hanno la faccia solcata da rughe che sembrano sorrisi e, qualsiasi cosa tu gli confidi, l’hanno già saputa dal mare. Lì, dove da giorni, troppi, una nave, un’altra, tenta di non soccombere, di costruire un ponte, uno solido, tra le persone. Come quello che proprio la casa di De André ha messo in piedi lo scorso sabato, quando in più di 10mila sono scesi in piazza per chiedere di liberare i migranti a bordo della Sea Watch, per ribadirsi accoglienti e solidali, per dire no a un decreto (in)sicurezza che discrimina e uccide, non solo gli uomini e le donne che scappano per sopravvivere, ma l’intera umanità ormai confusa da vecchi fantasmi. Un corteo lungo e variegato che ha visto camminare compatta la parte migliore della città, una Genova meravigliosa e inedita fatta di associazioni, sindacati, politica e cattolici, insieme per chiedere più welfare e diritti per tutti perché il futuro è già a colori, come la pelle delle mani che si stringono senza ritrosia, fobia, discriminazione alcuna. Una folla giunta fino al Museo del Mare per gettare in acqua fiori in ricordo di chi non ce l’ha fatta ad approdare, a raggiungere l’unico mondo sopportabile, la sola via d’uscita dell’inferno che brucia ad appena qualche bracciata da noi, disperati in cerca di una possibilità. Una manifestazione, quella ligure, rivelatasi la migliore risposta alla propaganda di regime che vuole gli italiani sempre più adirati e intolleranti, che sfrutta le vittime di casa nostra per giustificare scelte xenofobe e razziste, un’interminabile campagna elettorale in cerca di un nemico che non è straniero, sconosciuto, migrante, ma ha il volto molto più familiare di quanto si pensi, talmente simile al nostro da somigliare, spesso, al riflesso che ci fissa dallo specchio. È una città di mare Genova, di certo non può essere un caso.
Bagnati dall’infausto Mediterraneo, infatti, sono anche altri due centri italiani che nel fine settimana appena conclusosi hanno voluto far sentire ancora la propria voce: Napoli e Siracusa, la Campania e la Sicilia, terre povere di opportunità ma ricche di un sentimento che pare diventato un crimine, la solidarietà. Così, mentre i balconi siculi si adornavano di striscioni imploranti lo sbarco dei 47 a bordo dell’imbarcazione dell’ONG, nel capoluogo campano migliaia di persone si riunivano al Teatro Augusteo per discutere su come mettere concretamente in atto le offerte di aiuto giunte via mail al Sindaco de Magistris, il quale solo poche settimane fa aveva chiesto alla popolazione partenopea se e in che termini fosse disposta ad accogliere e supportare i migranti, riscuotendo una risposta importante ma per nulla sorprendente. Un’assemblea di buonisti, pronti a portarseli a casa loro. Come a Castelnuovo di Porto, dove i cittadini hanno scelto di ospitare alcuni deportati nelle proprie abitazioni per far sì che i bambini, ad esempio, non subissero un altro trauma, un’altra fuga, un altro strappo dall’agognata normalità.
Nelle stesse ore, inoltre, sempre a Napoli, associazioni di volontariato e operatori culturali hanno avviato un progetto che offre assistenza gratuita a chi proviene da uno Stato non europeo, un vero e proprio ambulatorio etnico mirante al superamento delle barriere che spesso impediscono a chi viene da Paesi extracomunitari di accedere alle terapie necessarie: «I migranti hanno, in tanti casi, un approccio alle malattie diverso dal nostro. Hanno, tanto per fare un esempio, uno spiccato pudore che gli impedisce di scoprirsi. Un pudore legato a motivi culturali, psicologici, religiosi. Dunque il nostro approccio, quello dell’ambulatorio etnico, è dedicato. Non è un ghetto e non c’è un canale preferenziale», ha dichiarato il professore Mario Delfino, direttore del Dipartimento di Dermatologia dell’Università Federico II. L’obiettivo, ha spiegato, è la prevenzione di malattie della pelle e della sfera sessuale, patologie facilmente inclini al contagio, tenendo conto delle differenze culturali di chi viene accolto: «Sarebbe oltremodo stupido, oltre che contrario alla deontologia professionale, non assistere chi vive qui. Curare gli immigrati è interesse di tutta la collettività. Il nostro è un dovere di tutela di “tutta” la popolazione. Non può essere un discrimine se quell’uomo o quella donna è qui in Italia legittimamente o meno. Il malato è malato, va assistito comunque. […] Ippocrate diceva che entrando in una casa il medico deve rispettare l’uomo (l’unico che aveva piena cittadinanza), la donna, lo schiavo. Sì, anche lo schiavo. La medicina nasce senza frontiere. E oggi non possiamo dimenticarcene».
Che il vento fascista stia spirando sull’Italia è ormai noto e spaventosamente concreto. Inutile e dannoso tentare di sostenere il contrario. Qualcuno, però, ha ancora il coraggio di chiudere la finestra e lasciarlo fuori, aprendo la porta per fare spazio a chi non ha nemmeno la forza di bussare. Un coraggio, questo, tipico dei navigatori, di chi non ha paura di affrontare la corrente avversa, il più pericoloso degli uragani, abituato ad affrontare la tempesta, natovi nel mezzo, come chi viene dal mare o da Sud, entrambi profondamente temerari e soli, orgogliosamente umani e spudoratamente solidali. Un altro Paese, dunque, è forse ancora possibile, probabile se non ci si lascia ingannare dagli slogan di chi vuole dividerlo, spezzettarlo, disossarlo per mangiarlo più comodamente. Un altro Paese che non sia disperato e che per questo guarda al passato con l’illusione del si stava meglio quando si stava peggio, magari quando c’era LVI. Crederci non è un’illusione, è l’obiettivo. Banana Yoshimoto si chiedeva a chi si rivolgesse la gente nelle città senza mare per ritrovare il proprio equilibrio. Forse alla luna, diceva. E quella, un po’ come il sole, sta lì per tutti. Siamo noi che vogliamo appropriacene per forza.