«Per formazione e per esperienza culturale sono convinta che la professione di psicologo non possa prescindere da un impegno sociale, da una visione del benessere che superi la sfera del singolo individuo, da un’attenzione costante alle relazioni, ai bisogni delle comunità, alle esigenze delle reti sociali. Come psicologa sostengo la genitorialità, mi occupo di relazioni disfunzionali e di tutti gli innumerevoli danni che una società come la nostra procura nei soggetti più fragili, come l’ansia, il senso di inadeguatezza e i disturbi alimentari». Risponde così la dottoressa Sara Bonfantoni, laureata presso La Sapienza di Roma, master in psicologia giuridica (oggi dedita ad attività di coaching nelle aziende), alla mia prima domanda nel corso della nostra chiacchierata telefonica: qual è il ruolo della psicologia nei tempi difficili che viviamo?
La pandemia presenta ancora notevoli problematiche, le tensioni internazionali e i timori per una possibile escalation della guerra in atto tra Russia e Ucraina stanno creando paura, ansia e solitudine in particolare tra giovani e giovanissimi. Su questi temi e sul ruolo di genitori e educatori abbiamo rivolto alla dottoressa alcune domande.
Due anni di pandemia caratterizzati dall’iniziale fase di ottimismo del tutto andrà bene alla ricaduta in un tunnel di paura e preoccupazione che hanno generato nuove patologie o peggiorato quelle già esistenti. La paura, l’angoscia, la sensazione di impotenza di molte famiglie sembrano aver prodotto gravi danni a equilibri già precari. Quale la Sua esperienza in merito?
«La pandemia da Covid-19 ha avuto un impatto pervasivo su tutti i livelli del vivere quotidiano. Le conseguenze di questi duri anni le vedremo nel tempo. Si parla sempre più spesso di long-Covid, una condizione che presentano le persone guarite dal SARS-CoV-2, che manifestano sintomi collegabili alla malattia anche molti mesi dopo essere guarite. Fenomeno che impone un monitoraggio da parte delle strutture sanitarie nazionali. Allo stesso modo, e con la stessa attenzione, occorre monitorare le conseguenze che la pandemia in sé ha provocato sull’equilibrio psicofisico delle persone e sulle dinamiche sociali e familiari. Il Covid-19 ha messo una grande lente di ingrandimento sull’io e sulle nostre relazioni. Abbiamo vissuto un periodo incredibilmente lungo di paura e incertezza. La nostra tenuta emotiva e le nostre strategie per fronteggiare lo stress sono state messe decisamente a dura prova. I dati che all’inizio ci giungevano, un giorno dopo l’altro, ci costringevano a una costante rimodulazione delle convinzioni e dei nostri paradigmi. Siamo stati obbligati a rivedere e a modificare le nostre abitudini: dalle più semplici come andare a fare la spesa, fino ai comportamenti di convivenza nelle comunità come la scuola e le aziende. Nel primo lockdown le famiglie e la casa sono state gli unici spazi esistenziali, ci siamo trovati a doverci riadattare a spazi spesso troppo piccoli per tenere in equilibrio abitudini e bisogni. È chiaro quindi che, laddove esistevano preesistenti difficoltà adattive, essere confinati nelle mura domestiche è stato di per sé un fattore stressogeno. La convivenza stretta e senza tempo che abbiamo vissuto nel primo lockdown ha fatto emergere in modo prorompente le problematiche che già esistevano (più o meno latenti) all’interno del sistema famiglia. E la nuova normalità, quando poi abbiamo cominciato a uscire, le scuole hanno ripreso e così le aziende, è stata comunque un protrarsi di incertezza, paura, prescrizioni, distanziamenti.
Quello che stiamo vivendo oggi è un tempo segnato. Sono stati anni duri, che richiedono un approfondimento e una riflessione. Tra tutti, il tempo maggiormente segnato è stato quello dei giovani, che sebbene siano stati sempre ritenuti meno vulnerabili agli effetti del virus, hanno ugualmente sperimentato paura e incertezza, e hanno dovuto rimodulare, come noi adulti, le loro abitudini di vita. L’isolamento e l’insicurezza, la paura del contagio per sé e per i cari, l’impossibilità di poter sfogare questa paura nelle modalità più classiche per i ragazzi, ovvero le relazioni, ha fatto esplodere situazioni di fragilità. Occorre partire da qui per analizzare le conseguenze e intervenire in modo sinergico per contenere gli effetti negativi».
Tra gli autorevoli esponenti della sanità da noi intervistati in questo lungo periodo di pandemia abbiamo raccolto la preoccupazione del dottor Paolo Siani, pediatra e direttore di struttura complessa presso l’ospedale Santobono-Pausilipon di Napoli e parlamentare molto attivo sui temi legati al mondo dell’infanzia. Cito: «In Italia, prima dell’epidemia, un bambino su otto non aveva l’indispensabile per vivere. Sono un milione e 200mila i bambini poveri nel nostro Paese, così distribuiti: 563mila nel Mezzogiorno, con una quota del 45%, 508mila al Nord (40%) e 192mila al Centro (15%). Per questi bambini non è il Covid-19 il pericolo, ma tutte le conseguenze che il virus sta portando con sé». Quali, a Suo parere, quelle più preoccupanti e quanto potranno incidere le condizioni economiche delle famiglie per far fronte alle conseguenze?
«Le condizioni economiche delle famiglie hanno inciso sin dal primo lockdown. È chiaro ed evidente che lo spazio-casa è stato determinante per poter gestire una convivenza forzata. Uno spazio domestico che permette di vivere alcuni momenti isolati e di rimodulare le proprie abitudini offre una condizione vantaggiosa nel fronteggiare un periodo di elevato stress. Negli appartamenti più piccoli, il dover condividere spazi esigui e strumenti di vita ha sicuramente esacerbato l’ansia e il disagio. Si pensi al vertiginoso aumento del fenomeno di violenza domestica durante il lockdown. Ancora di più le conseguenze si sono viste sul piano scolastico. La didattica a distanza è stata una necessità, certamente, ma il nostro Paese non era pronto ad affrontarla in modo equo e corretto. In molti territori, il ritardo nella digitalizzazione, infatti, ha fatto sì che numerosi studenti non potessero essere raggiunti dalla rete.
Nonostante l’ONU consideri l’accessibilità al web uno dei diritti di bambini e adolescenti, in Italia, ancora oggi, non tutti hanno internet. Di conseguenza, accanto a una povertà educativa, abbiamo assistito all’impatto di una povertà digitale. Oltre alle famiglie che non possono permettersi internet ce ne sono altre che, avendo più figli, non sono in grado di sostenere la didattica a distanza per tutti contemporaneamente. Su questo tema bisogna riflettere e lavorare. La scuola è un diritto e come tale occorre assicurare a tutti i ragazzi la stessa possibilità di accedere al servizio scolastico, in qualunque forma. Già prima della pandemia come Paese partivamo male: l’Italia è tra le nazioni europee con il più alto tasso di dispersione scolastica. La pandemia ha portato, purtroppo, a un ulteriore allontanamento e ha contribuito all’aumento dell’abbandono scolastico».
Quali sono state le conseguenze sul piano psicologico, relativamente a bambini e adolescenti?
«Sempre parlando di didattica a distanza, occorre tenere in giusta considerazione l’impatto dell’allontanamento dei ragazzi dal “sistema classe”. Un monitor del computer non può sostituire, infatti, quell’esperienza irripetibile che è il processo formativo dal vivo. Chiunque abbia fatto nella propria vita l’esperienza di essere all’interno di un gruppo sa che il gruppo è più della somma delle parti. Il gruppo classe è un sistema relazionale unico nel suo genere e dipende non solo dalla somma dei singoli che lo compongono ma dalle dinamiche relazionali e dal clima affettivo che unisce ragazzi e docenti in un’assemblea di menti e corpi in apprendimento. La perdita di questa dimensione sociale per i ragazzi e la privazione dei contatti con i propri simili ha avuto impatti importanti sulla crescita e ha aumentato il ritiro sociale e i casi di Hikikomori e di fobia sociale.
Anche la fascia dei bambini più piccoli ci impone una riflessione. Pur con tutti gli sforzi fatti dai genitori nel proteggerli dall’impatto mediatico del virus, le loro giornate sono state riempite di incertezza, di emozioni negative, di immagini di morte e di narrazioni apocalittiche. I ragazzi in genere oggi sono più irritabili e più arrabbiati. Ricerche condotte nel panorama nazionale dimostrano che, nella fascia di età tra gli 8 e i 13 anni, un terzo dei giovani pratica atti di autolesionismo. Sono aumentati i disturbi di natura ansiosa e i disturbi del sonno. I bambini hanno sperimentato un protratto stato di angoscia, per se stessi, per i genitori, per i nonni. Ricordiamo che provare ansia o preoccupazione di per sé non è un problema, anzi, è un naturale meccanismo del corpo per fronteggiare una situazione di pericolo. Tuttavia, quando l’ansia supera una certa soglia e perdura per un tempo eccessivo può condurre a forme gravi di disagio».
Neanche il tempo di uscire completamente dal tunnel della pandemia e subito l’incubo della guerra che potrebbe interessare anche il nostro Paese. Come affrontare quelle conseguenze frutto del virus alla luce di una realtà che genera ancora nuove paure, ansie e preoccupazioni anche negli adolescenti, e quale il ruolo dei genitori e della scuola?
«I genitori e la scuola possono fare la differenza nel controbilanciare le esperienze negative. Chiaramente non è possibile evitare ai bambini di provare emozioni spiacevoli, però possiamo controbilanciare il loro stato d’animo di incertezza e ansia con esperienze emotive positive. Oggi ci troviamo di nuovo di fronte a notizie catastrofiche. Alla luce di quanto abbiamo sperimentato finora, il modo con cui decidiamo di coinvolgere i bambini e i ragazzi influenza fortemente il loro benessere psicologico.
Per fare un esempio, la scelta di lasciare accesa o di scegliere deliberatamente di vedere la televisione, la sera tutti insieme a cena, è disfunzionale all’equilibrio emotivo. I bambini tendono ad assorbire tutto, le immagini, le sensazioni e gli stati d’animo anche di chi li circonda. Cerchiamo quindi di spegnere la televisione e di non parlare davanti a loro di dettagli angoscianti. E se fanno domande sulla guerra, perché ne sentono parlare negli ambienti che frequentano, cerchiamo di utilizzare un linguaggio appropriato, stimolandoli alla riflessione e all’approfondimento. Prestiamo attenzione alle emozioni che i discorsi sulla guerra suscitano nei nostri bambini: con le domande aiutiamoli a verbalizzarle e soprattutto diamo loro il diritto di provare queste emozioni e rassicuriamoli. Nell’età della scuola primaria i bambini sono in grado di assimilare i concetti generali sulla guerra, ma scegliamo comunque di parlare di speranza e di pace, evitiamo parlare di posizioni antitetiche e in conflitto. Raccontiamo di quelle associazioni che si mobilitano a sostegno delle persone in difficoltà, spieghiamo loro che esistono anche numerose persone che perseguono il bene e che la pace va cercata nel quotidiano.
Con gli adolescenti il discorso sulla guerra può essere più dettagliato, ma ricordiamo che durante questa età la regione pre-frontale del cervello, quella deputata alla razionalità, alla strategia e al controllo delle emozioni e degli impulsi, non ha ancora raggiunto la sua maturità e quindi i giovani in genere sono più vulnerabili alle emozioni. Non trascuriamo, quindi, l’impatto emotivo dei discorsi che facciamo. Rendiamoli partecipi della discussione facendo loro domande, accogliendo senza giudizio la loro posizione, cercando quindi di sostenerli nello sviluppo di un pensiero critico. Insegniamo loro un metodo di confronto, non liquidiamoli velocemente con una presa di posizione, la nostra».
A Montagnana, uno dei borghi veneti tra i più belli d’Italia circondato da una cinta muraria di circa due chilometri risalente al 1400, su iniziativa dell’Associazione Contame, lunedì 4 aprile, incontrerà genitori e educatori per discutere di questi temi e del ruolo delicato che famiglie e scuola hanno per sostenere i ragazzi in questa fase. Ritiene che in tutte le comunità, piccole o grandi che siano, vadano affrontate con urgenza tali tematiche?
«Siamo tutti responsabili. Credo che da questi anni dobbiamo cogliere l’opportunità di aumentare il nostro grado di consapevolezza sui ragazzi. Siamo pieni di luoghi comuni che dobbiamo abbattere. E questi luoghi comuni hanno pesato sui nostri figli in modo sproporzionato nel corso della pandemia. Durante il lockdown abbiamo visto adulti battersi per portare fuori il proprio cane a fare i bisogni e gli stessi adulti attaccare fortemente i ragazzi perché provavano a trovare quel briciolo di relazione che era stato negato loro. Non si può più ragionare così. Occorre trasformare questa esperienza in un’occasione di crescita, a partire da uno studio più attento sui nostri figli e su come veramente si muovono nella loro vita. Dobbiamo smetterla di guardarli senza veramente sapere chi sono, di parlare di loro senza saperli ascoltare. Torniamo a essere per loro interlocutori credibili e autorevoli».
Interlocutori credibili e autorevoli. Non poteva che concludersi nel migliore dei modi la conversazione con la dottoressa Bonfantoni che riteniamo possa dare un contributo a uno dei temi che mai come nei tempi complicati che viviamo sia di estrema importanza per tutelare la fragilità dei nostri giovani e giovanissimi.
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