È il più famoso, nonché unico superstite degli antichi caffè napoletani: è il mitico Gambrinus, che da due secoli si trova all’angolo tra Piazza Trieste e Trento e Piazza del Plebiscito, una delle cartoline di Napoli, come racconta Antonio Emanuele Piedimonte nell’omonimo libro. Di esso e di quei giornali che erano nati ai suoi tavolini, a fine Ottocento, Marcellin Pellet nel suo diario napoletano scrisse: Tutti gli ambiziosi, i candidati, i deputati, in una parola tutti i politicanti da caffè vollero avere un loro organo. […] Ciò che fu quest’epidemia di pubblicistica acuta in un Paese in cui nessuno aveva avuto l’occasione di fare apprendistato di giornalismo politico […] si può vederlo sfogliando una collezione di parecchie centinaia di giornali dal 1848.
È una delle più alte e significative espressioni dell’arte napoletana del secolo XIX, disse Domenico Morelli. Una piccola galleria d’arte, il Gran Caffè Gambrinus, con affreschi, stucchi, marmi, decorazioni, specchi e dipinti che sono ancora oggi presenti al suo interno e che lo rendono un luogo unico e inimitabile.
Inaugurato il 30 ottobre 1890, divenne il primo caffè di Napoli, nonché l’unico a sopravvivere ancora oggi. Precedentemente conosciuto come Caffè delle sette porte per via dei suoi numerosi ingressi, il Gambrinus era un locale chic frequentato da persone assolutamente particolari. Giacomo Leopardi adorava i suoi gelati e vi portò anche l’amico Arthur Schopenhauer, mentre Alexandre Dumas e Pier Luigi Fiorentino si incontrarono nelle sue sale, come racconta ancora Piedimonte. Benedetto Croce, a sua volta, lo usò come luogo d’osservazione della città.
Il Gran Caffè divenne una tappa obbligatoria per ogni tipologia di incontro, da quelli d’affari privati a quelli pubblici, dove poter staccare e vivere un momento di riflessione o semplicemente dare uno sguardo al mondo partenopeo. Anche Gabriele D’Annunzio fu un assiduo frequentatore del noto locale. Lo scrittore abruzzese arrivò a Napoli nel 1891 in cerca di due amici giornalisti che aveva conosciuto a Roma, Matilde Serao ed Eduardo Scarfoglio, e un giorno, proprio seduto a una delle poltrone del Gambrinus, a seguito di una sfida con Ferdinando Russo, scrisse dei versi in napoletano su un tovagliolo, o forse sul marmo del tavolino. L’amico del poeta aveva sostenuto che soltanto un partenopeo avrebbe potuto scrivere una canzone in dialetto e, invece, dalla sua penna nacque ’A vucchella: Si’ comm’a nu sciurillo…/ tu tiene na vucchella,/ nu poco pucurillo, appassuliatella/. Mah, dammillo, dammillo,/ è comm’a na rusella…/ dammillo nu vasillo,/ dammillo, Cannetella!/ Dammillo e pigliatillo/ nu vaso… piccerillo.
I tavolini del Gambrinus videro nascere anche molte altre canzoni. Tanti dei più bei testi della tradizione dell’Ottocento, infatti, furono pensati, scritti e qualche volta anche musicati proprio in questo caffè. Marechiaro, ‘O Sole mio, Maria Marì, Uocchie c’arragiunate! sono solo alcuni di essi. Si tratta di opere che spesso venivano recuperate grazie alla pazienza e all’abilità dei camerieri che trasferivano gli scritti dal marmo su fogli di cartapesta imbevuta d’acqua. Si trattava di un metodo di riproduzione litografica ideato da Gennaro Durante, cameriere del primo Caffè d’Italia.
Un caffè, il Gambrinus, che ha rifocillato re, regine, presidenti della Repubblica, artisti, poeti, intellettuali e tantissimi personaggi celebri, fungendo da redazione, cenacolo rivoluzionario, ma anche da laboratorio di poesia, atelier d’arte, officina musicale, studio di filosofia. Insomma, un vero e proprio centro vitale e culturale degno di una grande capitale europea.