La vita e la morte, le tradizioni e i valori, la famiglia e l’amore che tiene unite tutte le componenti. La speranza. Gabriella Giglio torna sugli scaffali della libreria napoletana IoCiSto con il suo ultimo romanzo, il terzo della trilogia dedicata a Sofia e Roberto, Le stagioni dell’amore. L’abbiamo incontrata.
Dal primo romanzo Un anno di noi a questo terzo capitolo, Le stagioni dell’amore. Ricordo che durante la nostra prima intervista mi parlasti di una suggestione da cui ti eri lasciata ispirare, la famosa canzone di Mina Mi sei scoppiato dentro al cuore. C’è una nuova componente che ha dato il via alla stesura di questo ultimo episodio?
«La suggestione, in questo caso, è il teatro. Il libro termina con una scena che prende spunto proprio da lì, citando Il silenzio grande di Maurizio De Giovanni, un’opera che amo moltissimo. Il teatro è il fil rouge di tutta la narrazione, anche i personaggi salutano assieme, in un unico capitolo, come una passerella al termine dello spettacolo. E io ho voluto salutare così questa storia. A questo va aggiunto il ritrovamento – da parte mia – di alcuni quaderni che erano di mia madre, quaderni neri, con il bordo rosso, di carta velina, su cui si scriveva a mano. Mi hanno ricordato le lettere di una volta. La lettera è un qualcosa che resta: puoi detestarla, stracciarla, ricomporla per poi conservala. Avevo il desiderio di appuntare a questo modo alcuni momenti della storia».
Sogni, un domani, una rappresentazione teatrale della storia?
«Con tutta la modestia dovuta e il senso pratico possibile, questa sarebbe una storia adatta più al cinema. Ci sono troppe ambientazioni in diversi piani temporali».
Hai sempre paragonato i tuoi libri ai tuoi figli. Questo è il terzo…
«Ed è dedicato ai miei tre figli. È un terzo bambino nato in era COVID, con tutte le difficoltà del periodo e il dubbio che potesse riscontrare una qualche forma di resistenza a essere recepito da qualcuno. Il lockdown mi ha permesso di lavorarci a lungo. È un libro che offre tanta speranza, che è la parola chiave dell’intera narrazione. Nel testo, Sofia dice una frase che le ripeteva sua madre: ogni impedimento è giovamento. Trovare il bene anche nei momenti più bui».
Entriamo nel libro. Partiamo dal titolo: cosa racconta?
«Il titolo è l’unica cosa che non ho scritto io, ma mi è stato suggerito da chi ha avuto la pazienza di accompagnarmi durante l’intera stesura, Antonio Manzini. È un titolo non a caso, racconta l’amore che si può vivere in tutte le stagioni della vita. Pensa, i protagonisti, Sofia e Roberto si incontrano già adulti, ora li ritroviamo veramente anziani, lei ha 70 anni, lui 84. Vivono l’amore nella maturità, nell’anzianità, l’amore che può scoppiare nel caldo afoso di un’estate a Napoli, come in una serata di pioggia a New York, volando verso il Canada. È l’amore che si declina in tanti modi, tra fratelli e sorelle, di una famiglia che ormai si è allargata a figli, nipoti. Trova spazio anche la gelosia di Roberto che, nonostante abbia una certa età, è ancora geloso della sua donna».
A proposito, Sofia e Roberto, dove e come li ritroviamo?
«La prima pagina di questo romanzo si apre sul Canada. Sofia e Roberto sono in partenza per tornare a Napoli, dove si festeggerà il lavoro di lui, un po’ come accadeva nel primo libro, quando prima di accettare il nuovo impiego il protagonista chiedeva alla sua donna di partire con lui, altrimenti non avrebbe accettato. Tu sei il mio assurdo, meraviglioso sogno e io mi avventuro solo se sei al mio fianco. Si rivive un po’ a ritroso».
In Le stagioni dell’amore affronti i temi della vita e della morte, accompagnati dal filo rosso della speranza. Ce li racconti?
«Trovo che non si possa parlare di vita senza la morte e viceversa. Sofia era una vedova giovane di un marito molto amato. Il senso della mancanza, della presenza dopo una perdita, lo porta dentro da sempre. Ci sarà un grande lutto all’inizio di questo libro che segnerà la vita di tutti i protagonisti. Anche in quel caso – scavando nelle mie esperienze – ho cercato di tirar fuori un messaggio di positività, senza mai edulcorare la cosa o togliere le lacrime dal viso dei protagonisti. La morte provoca dolore perché porta alla separazione. Tutte le risate, le arrabbiature e le gelosie, le incomprensioni, però, non si perdono. Restano. Mai come in questo momento tocchiamo con mano cosa vuol dire essere separati dai nostri amici, dai nostri affetti, dai nostri amori. Altro grande tema è la fede, non per forza riferita a Dio, ma a un qualcosa di superiore che può essere l’amore stesso».
Altro aspetto centrale è il ritorno alle vecchie abitudini, quelle che nell’era social abbiamo un po’ perso di vista.
«Sofia e Roberto sono molto tradizionalisti, anche se passano dal fare cose folli come avere un figlio a 60 anni (lui), ad altre molto più consuete, il ragù della domenica, scrivere le lettere. L’aspetto a cui Sofia tiene di più è il rapporto con le figlie. Tiene due quaderni uguali che scrive, ovviamente contenuti diversi, ad ognuna di loro».
È possibile, ai tempi d’oggi, scrivere una storia d’amore?
«Non solo è possibile, è un dovere. Il giorno che finisce l’amore, chiudiamo tutto. Chiudiamo tutta la vita. I sentimenti che proviamo per le persone non sono altro che una forma dell’amore più grande, verso Dio. Penso che sia cambiato col tempo, che si sia evoluto, con la tecnologia, con la comunicazione, ma l’amore, l’attenzione verso l’altro, è l’unica cosa a cui non dobbiamo mai rinunciare. È il gesto di chiedere “come stai”? Ogni epoca avrà la sua storia d’amore, in questa ci sono i messaggi e, naturalmente, una lettera scritta trent’anni fa aveva un altro modo di essere scritta».
Il tuo è un libro che richiama anche a valori come la famiglia.
«Questa è la parte più autobiografica del libro, insieme alle ricette utilizzate dai protagonisti in cucina. Valori come la famiglia, il rispetto, il lavoro, capirsi anche quando non è facile. Sono personaggi raccontati, ma non sono finti».
Dal primo libro a questa terza intervista. Ho come la sensazione che sia cresciuta anche tu insieme ai personaggi. Sbaglio?
«Assolutamente no, Sofia è la mia terapia dell’anima, qualsiasi cosa mi sia capitata l’ha digerita lei per me, mi ha aiutata. Non vorrei sembrare immodesta, ma credo di essere migliorata non solo sotto l’aspetto della lingua utilizzata, ma anche come scrittrice, come temi affrontati, come approccio. Sono maturata molto e sono soddisfatta di questo lavoro. Ci sono tante voci protagoniste, mentre nel primo parlava solo Sofia, interagiscono tanti personaggi, e questa è stata una bella sfida».
Ultima domanda: questo libro si porta dietro un grande scopo benefico. Ce ne vuoi parlare?
«È un libro d’amore che ha una finalità d’amore. L’intero ricavato andrà alla fondazione Enzo e Lia Giglio che porta il nome dei miei genitori e si occupa, da qualche anno, dei minori a Napoli. Il racconto dei tre capitoli credo si sposi bene con quella che è la missione della fondazione, fatta non solo di sostegno fisico come quello verso La casa di Matteo di Luca Trapanese, che accoglie bambini malati terminali, ma anche di ricerca di una possibilità di lavoro, di aiuto a trovare una propria strada a ragazzi come quelli che ultimano il proprio periodo di detenzione presso il penitenziario di Nisida con Don Gennaro Pagano. Trovo che la mancanza di un editore non tolga dignità al libro, anzi, ne rafforzi lo scopo».