Domenico Arcuri non è più il commissario straordinario per l’emergenza COVID. La notizia era nell’aria da un po’, almeno da quando Mario Draghi occupa Palazzo Chigi. La scorsa settimana è arrivata la conferma. A sostituirlo, tra applausi e tweet festanti di maggioranza e opposizione – ormai la stessa cosa –, Francesco Paolo Figliuolo, generale, già comandante logistico dell’esercito.
La nomina di Arcuri era arrivata il 18 marzo 2020, quando la pandemia stava appena affacciandosi e l’ex Premier Giuseppe Conte aveva scelto l’ad di Invitalia come suo uomo di fiducia. Da allora, le polemiche e persino le inchieste non sono mancate. Ma andiamo con ordine.
Fino a pochi mesi prima dall’arrivo del COVID, Domenico Arcuri era sconosciuto ai più. Amministratore delegato dell’azienda di Stato per gli investimenti e le riqualificazioni dal 2007, il suo volto è diventato familiare con il decreto Cura Italia, quando il governo ha affidato a lui l’attuazione e il coordinamento delle misure di contenimento e contrasto dell’emergenza epidemiologica. Poi è stato tutto un susseguirsi di incarichi: dalle terapie intensive alle mascherine, dal reperimento dei dispositivi medici alla firma del contratto dell’app Immuni, dal rientro a scuola al piano per la distribuzione dei vaccini. Nel mezzo, l’acquisto degli ormai celebri banchi con le rotelle, i padiglioni Primula e un’infinità di dubbi e discussioni che oggi si sono trasformati in oggetto di indagine da parte delle autorità. Nulla di nuovo nel Paese che vede i vertici sempre avvolti da uno strano mistero.
Quella di Arcuri, in effetti, è stata una scalata rapida, alquanto sospetta, persino in tempi di pandemia. Basti pensare che, mentre era chiamato a gestire una delle pagine più complesse della nostra storia, a Invitalia è stato affidato anche l’oneroso compito relativo all’ILVA di Taranto. Una materia che già di per sé, senza altri gravosi impegni, richiederebbe più del massimo dell’attenzione. Non per l’ex commissario straordinario, Superman come lo hanno soprannominato in molti, il più longevo tra i grandi manager pubblici.
Pupillo di Prodi ai tempi dell’IRI e di Sviluppo Italia, poi di Bersani Ministro, da sempre beniamino di Massimo D’Alema, ad Arcuri le sfide difficili non sono mai dispiaciute. Da almeno un decennio, infatti, con Invitalia si occupa delle aree di crisi industriale complessa: parliamo di situazioni complicate (alcune persino irrisolvibili) quale quella di Termini Imerese o dell’ex Italsider di Bagnoli, ad esempio, nodi difficili da sciogliere che fanno dell’azienda di Stato e di Arcuri – scrive Il Post – un commissario straordinario e una struttura commissariale permanente, benché informale: spesso molte di queste crisi industriali hanno già un commissario nominato dal governo, ma Arcuri è il commissario di tutte. Anche quando i risultati faticano ad arrivare.
Come nel quartiere napoletano, dove, in sostituzione dell’amianto che ancora inquina e uccide, si attende da anni la bonifica ambientale (e la conseguente riqualificazione) di cui Invitalia è stata nominata ente attuatore nel lontano 2015. Da allora al 2018, riferisce la Corte dei Conti, all’azienda sono stati affidati 442.7 milioni di euro, di cui 87.5 effettivamente erogati. La stessa Corte ha poi notificato che, in qualità di amministratore delegato, Arcuri avrebbe percepito uno stipendio superiore al tetto imposto nel 2014 per i manager pubblici, guadagnando tra il 2013 e il 2017 1.4 milioni di euro in più del consentito. E non solo lui.
Al netto di risultati effettivi e altri soltanto annunciati, comunque, di Domenico Arcuri si sono fidati in tanti e tanti sono stati i governi che ne hanno confermato la carica: da Prodi a Berlusconi, da Monti a Letta, da Renzi a Gentiloni, fino a Giuseppe Conte. Non Mario Draghi, però, che dopo appena pochi minuti di colloquio ha silurato il commissario per il generale Figliuolo, forse complici anche le recenti inchieste che pesano sulla testa del super manager. L’ad di Invitalia, infatti, è finito nuovamente sotto accusa, stavolta nell’ambito delle investigazioni per l’acquisto di oltre 800 milioni di mascherine effettuato con l’intermediazione di alcune imprese italiane e affidato a tre consorzi cinesi nei primissimi mesi della pandemia. Nello stesso periodo il governo avrebbe acquistato anche altri dispositivi, a prezzi inferiori, ma le consegne sarebbero avvenute tra maggio e giugno, quando l’urgenza non era più tale.
I PM parlano di un vero comitato d’affari, di un sodalizio di freelance improvvisati desiderosi di speculare sull’epidemia, capace di interloquire e di condizionare le scelte della Pubblica Amministrazione. Chi ne ha fatto parte – si legge – ha ottenuto provvigioni indebite per oltre 77 milioni di euro grazie a quello che viene definito un certo ascendente nei confronti della struttura commissariale di Arcuri, rea di talune anomalie procedurali, ma forte di una certa libertà. Il decreto firmato il 17 marzo, infatti, conferisce al commissario straordinario il compito di acquistare ogni bene indispensabile al contenimento della diffusione del virus, anche in deroga alle norme. Tutti gli atti sono sottratti al controllo della Corte dei Conti, fatti salvi gli obblighi di rendicontazione. E a oggi le cose di cui chiedere conto non sono affatto poche. Stando a quanto si legge soltanto nell’inchiesta romana, parliamo di un affare da 1.2 miliardi di euro. Al 30 dicembre – secondo uno studio di Cergas-Bocconi –, per le Ffp2 e le Ffp3 l’ex commissario avrebbe speso in totale appena 600mila euro in più.
Al centro delle indagini, tra gli altri, l’ex giornalista RAI Mario Benotti, già consulente dell’ex sottosegretario Sandro Gozi e del Ministero delle Infrastrutture guidato da Graziano Delrio, anche coinvolto e poi assolto nello scandalo Vatileaks. È il suo rapporto con Arcuri che – sostengono gli inquirenti – avrebbe portato, tra marzo e aprile 2020, alla stipula degli accordi con le società cinesi. Una di queste è la Loukai Trade, la prima a sottoscrivere un pre-contratto. Peccato che, all’atto della firma, la struttura commissariale ancora non esistesse. Non ufficialmente. Da gennaio a maggio, i contatti tra Arcuri e Benotti sono stati circa 1280. Poi il silenzio. O, dicono, l’apertura di un canale di dialogo differente. I reati ipotizzati sono traffico di influenze illecite, ricettazione, riciclaggio e auto-riciclaggio.
Al momento, per l’ex commissario è stata chiesta l’archiviazione, ma il GIP non si è ancora pronunciato. Intanto, il suo nome è comparso anche in un’altra indagine, quella relativa alla fornitura, nel lockdown primaverile, di 5 milioni di mascherine Ffp2 non conformi (ma con tanto di certificati) e 430mila camici alla Regione Lazio, per un totale di circa 22 milioni di euro. Un’inchiesta che ha già mandato ai domiciliari tre imprenditori, tra cui l’affatto sconosciuto Vittorio Farina, socio del pidduista Bisignani, amico di Berlusconi e Dell’Utri, e finanziatore di Matteo Renzi. La loro azienda, la Ent, avrebbe provato a piazzare diverse partite milionarie in qualità di fornitore sussidiario per l’approvvigionamento delle mascherine chirurgiche da destinare alle scuole, con la promessa che l’ex commissario le avrebbe prese da loro se va in rottura di stock. Anche in questo caso, Arcuri non risulta tra gli indagati. Nel frattempo, la Ent avrebbe stipulato un ulteriore contratto, per un valore di oltre 7 milioni di euro, con la Regione Veneto di Luca Zaia. Insomma, per gli sciacalli la pandemia si è rivelata occasione ghiotta.
Non solo dispositivi di sicurezza, comunque. Tutto l’operato di Domenico Arcuri è, oggi, sotto la lente di ingrandimento: dalle siringhe per i vaccini – pagate alla Red Lotus di Hong Kong circa sei volte più del prezzo fissato da alcune aziende italiane – al bando per reclutare medici e infermieri (rivelatosi un flop) per arrivare alle Primule, le strutture temporanee da installare per la campagna vaccinale. Un altro insuccesso dal valore di 8 milioni e 400mila euro. Pura follia. Sarà per questo – e, probabilmente, non solo – che il Premier Draghi ha scelto (a buona ragione) di sostituirlo. La domanda è sul perché abbia deciso di farlo con un generale dell’esercito.
Se a fargli gola è stata la sua esperienza in guerra o quella in Afghanistan, forse un altro nome sarebbe stato possibile: uno alla Gino Strada, per intenderci, che di emergenze e sanità ha una certa conoscenza e pure di conflitti, per fortuna non di interesse. Se, invece, si tratta soltanto del solito fascino per la divisa da cui la classe dirigente italiana non riesce a liberarsi, il discorso cambia e non poco. Basti pensare alla neonomina di sottosegretario con delega ai servizi segreti di Franco Gabrielli – l’ex capo della Polizia, appena sostituito dal suo braccio destro Lamberto Giannini –, in questi anni al centro di molte pagine discusse e discutibili, complice un Ministro sbirro – per citare il fondatore di Emergency – e il suo degno successore Matteo Salvini. Uno che, forse, non andava promosso. Nessuna discontinuità di pensiero, quindi, dal super manager al super generale. Dall’avvocato del popolo al banchiere tutto d’un pezzo. Ora persino ai colossi della consulenza americana. Perché l’Italia rincorre sempre l’uomo forte, mai quello necessario.