Solo un fiume a separarli Stati Uniti e Messico, solo un fiume e uomini a cavallo. Sembrano immagini di un altro secolo quelle che, in questi giorni, abbiamo osservato distratti: arrivano dalla sponda democratica dell’oceano, per questo – forse – fanno meno rumore. Per questo – forse – l’Europa non le ha viste. Sono le immagini di uomini a cavallo, cappello e stivali, uomini che ne frustrano altri per il solo gusto di farlo, perché possono: sono bianchi, texani, dal sapore di un’epoca lontana eppure sempre presente, portano la divisa e questo basta ad autorizzarli. Sono gli agenti di frontiera, quelli che impediscono ai migranti di raggiungere la terra promessa, il sogno americano riservato a quei pochi che hanno la fortuna di nascere già con la camicia.
Senza camicia, spesso appena in mutande o con calzoni strappati, sono invece i dannati della Terra, gli uomini e le donne che quel confine tentano di attraversarlo nella stessa speranza che nutre Gatsby mentre allunga la mano verso una luce verde che sa di irraggiungibile. Uomini e donne pronti a rischiare tutto perché tutto è il nulla che hanno: qualche straccio, uno zaino di ricordi e beni primari, acqua e pochi viveri. Il più delle volte, se la migra (la polizia di confine) non ci urina sopra, sono costretti a lasciarli lungo la traversata. Solo così possono correre più veloce, provare a disperdersi nel deserto, a trovare la via nel buio di una terra di mezzo fatta di storie che nessuno vuol sentire, di un traffico illecito di droghe e persone, dove a passare sono le prime e quasi mai le seconde. Solo così, forse, sfuggono alle frustate, ai colpi di fucile sparati nel silenzio di un gioco di ruolo fin troppo reale. Solo così, forse, non rischiano di annegare quando l’acqua del Rio Grande si fa più alta o portentosa, quando non sanno nuotare.
Dopo la breve interruzione causata dalla pandemia, l’esodo da Sud, negli Stati Uniti, è ripreso deciso. Soltanto nella scorsa settimana, circa 15mila migranti hanno raggiunto la frontiera e si sono accampati sotto il ponte di Del Rio, la cittadina texana oggi al centro delle polemiche. L’acuirsi della crisi politica ed economica che sta interessando il mondo intero e, in particolare, il Centro America muove la disperazione, incoraggia a un viaggio lungo ed estenuante.
Sin dal suo insediamento e in anticipo rispetto allo scadere dei suoi primi cento giorni di mandato, Joe Biden si è ritrovato ad affrontare la più grande crisi di confine degli ultimi vent’anni. I numeri legati all’immigrazione clandestina, infatti, sono aumentati in modo esponenziale. Nel solo mese di febbraio, ad esempio, sono state arrestate più di 100mila persone che hanno tentato di attraversare il confine tra Messico e Texas. Tra queste, 10mila erano minori. Altrettante potrebbero vedersi respingere ancora.
È su queste premesse, dunque, che l’amministrazione democratica ha optato per misure di deterrenza, anche drastiche, che limitino i valichi di frontiera: l’aumento del flusso migratorio, infatti, sta creando grosse difficoltà al Presidente, incapace com’è di rispondere all’emergenza in un modo che non somigli troppo a quello del suo predecessore. La posizione di Biden, invece, oscilla ancora tra la retorica di una politica migratoria umana e una gestione muscolare, come quella delle espulsioni di massa di questi giorni lungo le sponde del fiume, finite addirittura a frustate: «Circostanze estreme richiedono risposte estreme», ha risposto Bruno Lozano, Sindaco della città texana di Del Rio. Talmente estreme da star costruendo un muro di metallo, una barricata formata da centinaia di automobili atta a frenare l’emorragia umana. Sulla falsariga dell’ideologia trumpiana, il governatore Greg Abbott l’ha definito il primo dei passi senza precedenti che intende realizzare: «L’incapacità di far rispettare le leggi che regna negli Stati Uniti porta al caos, che conduce a sua volta alle azioni inumane». L’incapacità o la scarsa volontà?
Negli ultimi giorni, nel centro texano, si sono radunate migliaia di persone. Molte vengono da Haiti, altre da Venezuela, Cile, Nicaragua. Hanno attraversato chilometri di instabilità politica, povertà, malattia e paura: sui social, e nelle strade, si era sparsa la voce che il confine fosse aperto, che – finalmente – gli Stati Uniti fossero diventati accoglienti. E, invece, nemmeno stavolta è successo. Nemmeno stavolta i diritti umani hanno vinto sulla propaganda. «Non è questo il momento di venire», continuano a ripetere da una Casa Bianca fintamente indignata. Ma per loro, per i migranti, per i poveri, non è mai tempo. O, forse, lo è sempre. Perché sempre hanno bisogno di scappare, di cercare condizioni di vita che possano, in qualche modo, garantire una sopravvivenza. Lo sa Biden, lo sapeva Trump, lo sa Mayorkas, il primo segretario della sicurezza interna ispanico, anche lui figlio di rifugiati, scelto da un Presidente che quei richiedenti asilo li rimpatria senza se e senza ma.
Nonostante le promesse di rottura netta con il passato, sono ancora le politiche migratorie repubblicane ad avere la meglio negli USA del cambiamento. Così, le autorità di frontiera esercitano tutta la violenza di cui sono capaci, i migranti vengono picchiati e arrestati, i voli di rimpatrio aumentano fino a sette decolli al giorno. Tutto pur di respingere speranze che nessuno intende alimentare. 30mila sono i profughi che potrebbero partire dalla Colombia entro la fine dell’anno; 28 mila, invece, sono gli haitiani intercettati fino a oggi lungo il confine.
Sebbene rappresentino ancora una piccola percentuale di frontalieri – circa il 4% dei migranti incontrati ad agosto – il numero degli isolani è aumentato vertiginosamente negli ultimi mesi. Haiti, infatti, uno dei Paesi più poveri del mondo, sta attraversando una fase di grande incertezza politica – con conseguente crisi umanitaria – dopo l’uccisione dell’ex Presidente Jovenel Moïse e il terremoto che ha provocato decine di migliaia di decessi e sfollati, non ancora quantificati. Per tale motivo, a maggio Biden aveva annunciato un blocco di 18 mesi alle deportazioni dei cittadini dell’isola. Siamo a settembre e ha già cambiato idea.
Haiti, tuttavia, non è nelle condizioni di riaccogliere i suoi figli senza casa e senza lavoro, per questo ha chiesto una moratoria internazionale sui propri migranti. E se dal resto del mondo non ha ottenuto risposta, alla Casa Bianca non hanno tentennato: «Non si tratta di Haiti, ma di applicare la legge sull’immigrazione in generale», dicono. «Si tratta di far rispettare le restrizioni di confine a coloro che continuano a entrare illegalmente nel Paese e mettono a rischio le loro vite e quelle della forza lavoro federale». Dai minori tenuti in gabbia ai migranti frustati, insomma, non molto è cambiato. Nemmeno la credibilità di un Presidente democratico che di democratico – così come spesso succede – ha davvero ben poco.
«Le uniche due opzioni per queste persone sono vivere in rifugi sovraffollati oppure in strada in condizioni igieniche inadeguate con il rischio di contrarre il Covid-19», denuncia Medici Senza Frontiere. A Tapachula, al confine meridionale messicano, l’associazione ha inviato un team di emergenza per aiutare i circa 40mila migranti che da quelle parti vivono ammassati senza accesso a una sistemazione, ai servizi di base o ad alcuna opportunità lavorativa.
In città, i migranti sono per la maggior parte donne e bambini che vivono da mesi in un limbo. Alcuni hanno attraversato di recente la frontiera, mentre altri sono stati deportati dagli Stati Uniti fino al confine settentrionale del Messico e poi trasferiti a sud dalle autorità locali. A Reynosa, invece, la maggior parte dei migranti, incluse le donne in stato di gravidanza, bambini, anziani, indigeni e persone che non parlano spagnolo, è stata espulsa dagli Stati Uniti in base al Titolo 42, il provvedimento emesso a seguito della pandemia di Covid-19 che prevede l’espulsione di massa immediata per pretestuosi motivi di salute pubblica. Sin dalla sua introduzione, al Titolo si è fatto ricorso circa 700mila volte. Questa politica, in violazione della legge internazionale e in vigore anche grazie al benestare del governo messicano, mette in pericolo la vita dei migranti, generando violenza. Generando morte. Generando odio.
Al confine, gli intervistati si dicono felici. Felici perché vedono più vicina una possibilità. Parlano di fortuna, loro che sono arrivati. Altri, tanti altri, non ce l’hanno fatta. Non sanno che nemmeno loro ce la faranno. Non sanno che nessuno li vuole. Non sanno che lo squadrismo democratico crea indifferenza, negli USA e nel resto del mondo, quello civilizzato, quello accogliente, quello che oddio l’orrore talebano, sia lodato l’americano. Se di finta sinistra, meglio ancora. Non sanno che, pur respinti, continueranno a tornare, ad attraversare, a mangiare erba, sterpaglie, cactus, a bere acqua putrida per il bestiame o a non bere nulla. Non sanno che continueranno a pagare le mafie, a raggirare la migra, a cadere nel fiume quando i piedi cederanno. A spaccarsi la pelle, le mani e la schiena. Non sanno che è solo un fiume, tra l’inferno del prima e il purgatorio del poi. Del mondo per come lo hanno sognato senza conoscerlo.