Accade sovente, nella cultura di massa, che un’opera d’arte diventi talmente iconica da risultare conosciuta al pubblico senza realmente conoscerla. È il caso, ad esempio, del Viandante sul mare di nebbia, anche noto grossolanamente come “l’uomo di spalle sulle rocce”. Un’opera strabusata, piazzata come copertina su ogni dove. L’autore di questo dipinto è Caspar David Friedrich, esponente del Romanticismo tedesco, uno dei maggiori interpreti del cosiddetto paesaggio simbolico. Forse non tutti sanno cosa c’è davvero dietro la sua poetica, in un’epoca estremamente delicata e introspettiva. Per questo, è necessario fare un piccolo passo indietro.
Friedrich nacque nel 1774, a Greifswald, e fu attivo per quasi l’intera prima metà dell’Ottocento, il periodo storico che vide la nascita e la diffusione a livello europeo di uno dei più variegati e complessi movimenti culturali: il Romanticismo. Sia in ambito letterario, che filosofico, che artistico, diede voce a una nuova soggettività e attenzione alla creatività dell’artista, opponendosi al recente Neoclassicismo, alla razionalità dell’industrializzazione e alle tensioni politiche in corso. Non è un caso, quindi, che i sentimenti posti in primo piano fossero di incertezza e inquietudine. Alla costante ricerca di nuovi linguaggi espressivi, furono due i generi rivalutati: la ritrattistica e la pittura di paesaggio.
Il motivo per cui abbiamo parlato di Romanticismo come fenomeno variegato è che, sebbene partisse da premesse comuni, ebbe esiti differenti a seconda dei paesi dove si manifestò. Per fare qualche esempio, in Italia proliferò la pittura storica, un forte sentimento di nostalgia – soprattutto verso epoche come il Medioevo e il primo Rinascimento – o anche temi mitologici. In Francia ci si rivolse a tematiche sociali e concrete. Basti pensare alla celebre Zattera della Medusa di Gericault o all’ancora più iconica Libertà che guida il popolo – altra opera consumata dalla cultura pop – di Delacroix. Fu, invece, in Inghilterra e in Germania che si rivalorizzò la pittura di paesaggio, intesa non più come mero sfondo ma come protagonista indiscussa.
L’attenzione alla natura, divinizzata, metteva in risalto la piccolezza e l’impotenza dell’essere umano di fronte a tanta maestosità. I modelli estetici furono due: si poteva approcciare alla natura attraverso il pittoresco – sentimento di spaesamento di fronte a un paesaggio predominante ma amichevole, pacifico, una natura benigna come laghi, boschi, ruscelli – oppure tramite il sublime – emozione tra lo sgomento e il piacere di fronte a una natura inarrestabile, spesso ostile, come tempeste o eruzioni. È qui che si contestualizza il nostro Friedrich, maggior esponente del senso di sublime nella pittura di paesaggio tedesca. «La più forte emozione che l’animo sia capace di sentire», citando Edmund Burke, coadiuvata dalla temperie dello Sturm und Drang (tempesta e impeto), allora in voga.
Friedrich studiò alla prestigiosa Accademia d’Arte di Copenaghen per poi trasferirsi a Dresda e interagire con i maggiori circoli culturali romantici. Grazie ad amicizie con poeti e letterati – Goethe fu uno dei suoi più grandi estimatori – ebbe modo di sviluppare uno stile in linea con le tesi di allora ma assolutamente personale. Nei suoi paesaggi, prevalentemente tedeschi, si identificavano sentimenti forti, riflessioni sull’essere umano, contemplazione della natura e profonda religiosità. I suoi suggestivi effetti di luce, per nulla lasciati al caso, facevano da coprotagonisti, verso la creazione di un’opera rappresentante un viaggio nell’anima.
Il dipinto che ne consacrò la fama fu senza dubbio La Croce sulla montagna, nel 1807. Gli era stato commissionato dalla nobile famiglia Thun come pala d’altare per la propria cappella a Tetschen. Le polemiche non si risparmiarono. Il soggetto non era altro che una croce in lontananza, sul picco di una montagna cosparsa di abeti. Ciò che infastidì tanta parte di pubblico e critica fu il non protagonismo della croce, quasi in secondo piano rispetto al paesaggio, specialmente considerando che la collocazione era una cappella. «Presuntuoso se la pittura di paesaggio dovesse intrufolarsi nella chiesa» fu detto, ma Friedrich fugò ogni dubbio: per lui la natura era una manifestazione di Dio e della sua potenza. Per la prima volta, dunque, tematica religiosa e scenario naturale si fondevano armoniosamente, attraverso un fascinoso gioco di luci. Fondamentale in Friedrich era il simbolismo. I suoi dipinti celavano simboli e allegorie che era lui stesso a esporre, creando un vero e proprio codice personale. Gli abeti, ad esempio, incarnavano la Resurrezione.
Divenuto membro dell’Accademia di Berlino, nel 1810, un altro dei suoi capolavori fu Abbazia nel querceto, noto per rientrare in quella branca della storia dell’arte definita horror. Effettivamente, i toni sono cupi e la scena inquietante: una processione di monaci, che sorreggono una bara, si muove verso l’ingresso di una chiesa in rovina, simbolo della decadenza dell’istituzione ecclesiastica e della transitorietà del tempo. L’architettura e gli alberi spogli sono spettrali, lo scenario desolato, il senso di mistero e angoscia è dato prevalentemente dalla luce.
Quando la natura non è l’unico soggetto, se la figura umana c’è è minuscola, quasi impercettibile – Monaco sulla spiaggia ne è un esempio –, a simboleggiare la limitatezza dell’uomo, sommerso, schiacciato da una natura che non sarà mai in grado né di dominare né di comprendere davvero. Così come Dio. Le cose mutarono leggermente dopo il matrimonio con Caroline Bommer, momento in cui nella sua arte comparvero cromie più luminose e una figura umana più presente, anche se comunque secondaria. Ritorna quindi il già citato Viandante sul mare di nebbia, fregio indiscusso dell’arte romantica, esempio perfetto del sublime secondo Friedrich. Tratto distintivo è l’utilizzo della Rückenfigur, la figura di spalle, di modo che lo spettatore riesca a immedesimarsi psicologicamente. Il senso di solitudine e inadeguatezza del viandante, rappresentante della condizione umana, la fa da padrone, mentre contempla l’infinito con struggente malinconia – non è un caso che il dipinto sia presente in ogni testo studentesco relativo a Giacomo Leopardi. Un’esperienza spirituale per riflettere su se stessi, sulle proprie insicurezze, i dubbi, le domande, e allo stesso tempo lasciarsi travolgere dolcemente da questo impenetrabile spettacolo.
Un’interessante curiosità riguarda l’abitudine del pittore di lavorare in studio e non en plein air, come si presume debba accadere. Questo perché era convinto che la sua visione esteriore fosse soltanto il preludio verso una visione interiore, una trasmissione dei propri sentimenti all’interno di un paesaggio ideale anche se apparentemente realistico. Diceva spesso: «Chiudi il tuo occhio fisico, al fine di vedere il tuo quadro con l’occhio dello spirito».
Dal 1824, Friedrich fu colpito da una misteriosa malattia che oggi potrebbe essere ricondotta alle conseguenze di un ictus cerebrale. La depressione che lo colpì limitò notevolmente la sua produzione, incupì i toni e gli causò gravi problemi finanziari. Il tema della morte divenne predominante, simboleggiata da notturni o paesaggi invernali. Sempre più schivo e solitario, Friedrich dipinse i paesaggi interiori tedeschi, le scogliere di Rügen, i dintorni di Dresda, fino al 1840, anno della sua morte.
«Il divino è ovunque, anche in un granello di sabbia» sono le sue parole, le parole di un artista pieno di fede e di paure che seppe far evolvere la concezione classica di paesaggio. Non più un bel fondale subordinato alla condizione umana, ma un soggetto autonomo, che ingurgita dentro di sé i drammi esistenziali, generando un capolavoro che ogni spettatore potrà guardare a prescindere dall’epoca e vederci sempre una storia nuova. La storia di ognuno.