Se c’è un film che l’Italia stava aspettando con hype, specialmente da quando è stato presentato in concorso alla 78ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, quello è senz’altro Freaks Out, secondo lungometraggio di Gabriele Mainetti. Coadiuvato dal soggetto di Nicola Guaglianone, il duo si era già distinto nel 2015 con l’ormai cult Lo chiamavano Jeeg Robot, in cui un eccellente Claudio Santamaria, nei panni di un delinquente romano, entra in contatto con una sostanza radioattiva che gli procura una forza sovrumana. Oggi torna alla carica con una nuova potente pellicola che, seppur con i suoi piccoli problemi, è un altro pregio del cinema italiano contemporaneo.
Mentre con Lo chiamavano Jeeg Robot eravamo di fronte a una storia in stile Suburra o Romanzo Criminale che strizzava l’occhio ai cinecomic, Freaks Out (letteralmente dare di matto) recupera personaggi con poteri sovrannaturali ma l’epoca è quella della Seconda guerra mondiale, in una Roma in piena occupazione nazifascista. Mainetti si dimostra cresciuto e maturato, sia per tecnica che per sceneggiatura, riprendendo il tema supereroistico e trasportandolo nel passato, in un contesto di morte, violenza e discriminazione.
Tra i bombardamenti e le deportazioni degli ebrei nei campi di sterminio, si snodano le vicende di alcuni freaks, persone con abilità speciali, all’interno del Circo Mezzapiotta. Abbiamo il Chewbecca italiano, Fulvio, un uomo ricoperto di peli e con una forza fuori dal comune; c’è Matilde, ragazzina dal corpo totalmente elettrico; Cencio, un giovane albino in grado di controllare gli insetti; infine Mario, affetto da acondroplasia e con un lieve ritardo mentale, che ha la capacità di manipolare gli oggetti metallici. Quando il loro capo e riferimento Israel scompare nel nulla, i quattro dovranno fare i conti con gli orrori della guerra e con un altro circo disponibile ad accoglierli: quello del tedesco Franz.
Il cast, ancora una volta, è una garanzia. Torna, seppur parecchio mascherato, Claudio Santamaria nei panni – anzi, nei peli – di Fulvio. Nulla da dire, lo amiamo anche in versione uomo-lupo. A interpretare Cencio è Pietro Castellitto, primogenito di Sergio, il quale si era distinto nel 2020 vincendo il Premio Orizzonti a Venezia come Miglior regista esordiente con il suo I predatori. Qui è un personaggio piuttosto eccentrico ma divertente, forse un po’ il comic relief della situazione. Grande rivelazione è la giovanissima Aurora Giovinazzo, che in molti avranno forse visto come protagonista nel recente teen-movie Anni da cane, su Amazon Prime Video. Il proprietario del circo ed ebreo, Israel, ha il volto di Giorgio Tirabassi, mentre Giancarlo Martini interpreta il tenero Mario. Menzione d’onore per Max Mazzotta – i più lo ricorderanno per esser stato Fiabeschi nel film Paz!, tratto dai fumetti di Andrea Pazienza – nel ruolo del Gobbo, capo di una sorta di tribù di partigiani, ognuno con una diversa menomazione a causa della guerra. Ma chi governa letteralmente il film è lui, Franz Rogowski, il quale interpreta Franz, il villain. Sei dita per mano, caratteristica che lo rende un eccellente pianista, e una particolare abilità che non vi sveliamo per lasciarvi godere sul momento questa trovata geniale.
Come già visto con Lo Zingaro di Luca Marinelli in Lo chiamavano Jeeg Robot, è evidente la particolare predilezione di Mainetti per la scrittura dei villain, per la quale deve davvero divertirsi un mondo. Franz è follia pura. È imprevedibile, narcisista, sopra le righe ma al tempo stesso patetico, privo di empatia e di qualsiasi rimorso. Anch’egli ai margini, vuole disperatamente ottenere l’approvazione degli altri, in particolare di suo fratello Amon – Sebastian Hülk era anche in Dark, nel ruolo del giovane Egon Tiedemann – ed è ossessionato dalla ricerca di persone speciali da donare al Reich, affinché la Germania possa vincere la guerra. Franz è forse il più grande pregio di Freaks Out, eppure un enorme difetto. Sì, perché la sua caratterizzazione primeggia talmente tanto da farci quasi dimenticare che i protagonisti sono altri. All’opposto, alcuni personaggi che dovrebbero essere primari sono troppo poco esplorati e il ritmo risulta non sempre regolare.
Nel complesso è un film estremamente godibile, nonostante le due ore e venti di durata. Uno spettacolo per gli occhi dal punto di vista estetico, contraddistinto da ottimi effetti visivi, splendide scene action e una fotografia assai poliedrica, prima calda e sognante, poi fredda e angosciante. La regia di Mainetti dimostra tutta la sua maestria, tra piani sequenza e sapienti inquadrature, equilibrando l’elemento fantasy con quello crudo della guerra. Ottima anche la colonna sonora – dello stesso regista – composta da musiche originali e brani iconici.
Punto centrale della storia è il concetto di diversità. I freaks, oltre a essere un chiaro riferimento alla pellicola cult di Tod Browning del 1932, erano i fenomeni da baraccone, i diversi, gli emarginati, i reietti della società. Lo sono i protagonisti, convinti di possedere una maledizione più che un dono. Lo è il cattivo, nel tormentato tentativo di sentirsi apprezzato. Lo sono i partigiani, i ribelli, con disabilità eppure fieri, forti, battaglieri, pericolosi. Lo è ognuno di noi. Tutto sta nella scelta che si fa durante il proprio cammino. Diverso è lo stesso cinema di Mainetti, che sceglie deliberatamente di distaccarsi dal drammone o dalla commedia in cui il cinema nostrano sembra spesso ingabbiato, verso un prodotto dall’eco hollywoodiana ma profondamente italiano. E fiero di esserlo.
Freaks Out è stato girato nel 2018 e sarebbe dovuto uscire in sala nel 2020 se non fosse stato per il Covid. Con una produzione italo-belga, il budget utilizzato ammonta alla bellezza di 12 milioni di euro, motivo per cui invogliamo il pubblico a finanziare e andare in sala a vedere il film. Il grande schermo fa la differenza, fidatevi, e la polarizzazione di recensioni non ha davvero senso di esistere. Un film poetico, emozionante, spiazzante, rocambolesco, in cui fa capolino più di un riferimento nerd, da X-Men a Star Wars. Una favola dal sapore dolceamaro che ci ricorda l’importanza di accettare e accettarsi. E che il cinema italiano ha sempre e ancora molto da offrire.