NO CAP nasce nel 2011 dall’iniziativa di Yvan Sagnet, ingegnere camerunense punto di riferimento per la difesa dei diritti dei braccianti. Si tratta di un movimento nato per contrastare il fenomeno del caporalato e tutelare il rispetto dei diritti umani, sociali, e dell’ambiente. NO CAP è gestita da un gruppo di attivisti e volontari come Francesco Strippoli, che oggi ci ha scelto di raccontarci la sua esperienza.
Francesco, come mai NO CAP nasce a Foggia?
«In realtà NO CAP non nasce proprio a Foggia, ma ha origini più distanti. Il fondatore di NO CAP, Yvan Sagnet (oggi personaggio pubblico e senatore della Repubblica), si è affermato tramite la rivolta di Nardò del 2011. Per la prima volta i lavoratori migranti sfruttati dal caporalato hanno scioperato. Questa protesta ha avuto un forte risalto mediatico a livello internazionale, originando il primo processo in Europa per riduzione in schiavitù. All’epoca non esisteva il reato di caporalato (ovvero intermediazione illegale di manodopera), il quale è stato introdotto per la prima volta proprio grazie al risalto mediatico della vicenda di Nardò. Oggi abbiamo la legge 199 del 2016, che comporta la responsabilità degli imprenditori che sfruttano la manodopera e beneficiano di questo sistema. A Foggia il movimento NO CAP si è sviluppato particolarmente perché si tratta di un territorio strategico: c’è la famosa raccolta del pomodoro, l’oro rosso della Puglia, e ghetti giganteschi che contano più di 5mila persone l’uno».
A proposito dei “ghetti”, le baraccopoli che ricordano quelle africane. Quali sono le condizioni di vita di questi non-luoghi?
«Uno dei più grandi nel nostro territorio è Borgo Mezzanone, in cui sono confluiti i lavoratori dell’ex ghetto di Rignano, baraccopoli in mezzo al nulla. Borgo Mezzanone è un’ex pista d’aerei abbandonata che si è riempita di baracche. È tutto abusivo, pieno d’immondizia, non ci sono servizi, non c’è niente. Solo disagio e marginalizzazione. Chi ci vive si trova in una situazione di totale abbandono. I braccianti si trovano in queste condizioni perché vengono sfruttati, pagati 2/3 euro all’ora, e non possono permettersi di affittarsi una casa. Anche se riuscissero ad avere la disponibilità economica, non avendo documenti o contratti di lavoro regolari, la burocrazia lo impedirebbe. Si tratta di una condizione estremamente precaria e pericolosa, soprattutto in questo periodo di pandemia».
Immagino che le direttive sanitarie siano impossibili da seguire nelle baraccopoli. Durante l’emergenza COVID lo Stato si è attivato per tutelare chi ci vive?
«Non è stato fatto assolutamente niente. Molte chiacchiere. Bisognerebbe intervenire con la protezione civile, mettere le persone in salvo e in sicurezza, invece è stata mantenuta la stessa situazione di baracche tutte ammassate, immondizia, abbandono».
Siamo in una delle estati più torride di sempre. Penso ai braccianti costretti nei campi sotto questo caldo infernale. Quali sono i rischi e le condizioni di lavoro di queste persone?
«I rischi sono altissimi. Quando noi abbiamo fatto il reclutamento per la nuova stagione della filiera etica di NO CAP, siamo andati a Borgo Mezzanone a prendere le adesioni dei lavoratori e abbiamo portato borracce e mascherine. Sono due cose che sono utilissime contro il COVID e contro il caldo, che sono i due principali nemici dei lavoratori in questo momento. Questa è una cosa di cui non si è occupato nessuno, né lo Stato né tantomeno le aziende. Le aziende, soprattutto quelle che sfruttano, non se ne fregano niente di dare dispositivi di protezione individuale».
C’è stata un’ordinanza del Presidente Emiliano in seguito alla morte di un bracciante sul divieto di lavoro nelle ore più calde. È stata efficace?
«Il problema è sempre lo stesso. Le leggi ci sono, ma farle rispettare è tutt’altro paio di maniche. Non a caso, su questo tema è importante ciò che facciamo con NO CAP. Non ci limitiamo a certificare lo status quo, a dire “questa azienda è etica, rispetta i contratti collettivi nazionali, rispetta i diritti”. Inseriamo i lavoratori all’interno delle aziende tramite progetti sociali per chi è in particolari condizioni di fragilità e marginalità, e questo ha un duplice risultato: l’inserimento dei nuovi lavoratori, ma anche la possibilità di avere un occhio costante sulla realtà aziendale nel quotidiano. Questo ci permette di eliminare il cosiddetto lavoro grigio: aziende che violano le regole nel quotidiano, ma rimangono nella legalità a livello di facciata. I contratti sono in regola, ma in realtà i braccianti lavorano di più, in condizioni peggiori, vengono retribuiti meno o obbligati a restituire parte dei soldi del salario. Invece, avendo delle persone all’interno che fanno riferimento a noi, abbiamo la possibilità ogni giorno di metterci in contatto con loro. Ci sentiamo costantemente con i nostri lavoratori, “quanto tempo avete lavorato oggi?” “Sei ore e mezza”. “Lo stipendio è stato accreditato regolarmente?” “Sì”, e così via. È questa la nostra forza».
Che servizi pratici fornisce l’Associazione NO CAP per i lavoratori?
«Nei fatti, il caporalato si esplica nel servizio del trasporto o nelle situazioni alloggiative. Non ci si può occupare solo della questione contrattuale. Immagina: fai valere il contratto del lavoratore, ma quello come ci va al lavoro? Coi furgoni dei caporali, che portano venticinque persone in un mezzo da nove, tutti ammassati assieme. Se non ci occupiamo anche dei servizi funzionali, rischiamo di far cadere le persone nelle maglie dello sfruttamento. È stato fondamentale per NO CAP fornirsi di furgoni e mezzi di trasporto e metterli a disposizione dei lavoratori, così come gli alloggi. Chi lavora con NO CAP non vive nei ghetti».
Quindi riuscite a trovare delle sistemazioni alternative?
«Sì, abbiamo delle partnership. L’anno scorso abbiamo collaborato con la foresteria della Regione Puglia, quest’anno la situazione è molto migliore. Collaboriamo con la Comunità Emmaus, il villaggio Don Bosco. Sono delle villette a schiera con tutti i comfort e servizi messe a disposizione dei lavoratori. La fuoriuscita dal ghetto e il trasporto sicuro e dignitoso sono elementi fondamentali. Se si trascurano questi due elementi, ripeto, ci sono rischi enormi. Immagina la scena: nel ghetto di Borgo Mezzanone ogni settimana c’è un incendio o un accoltellamento. Un lavoratore NO CAP esce sui giornali perché è stato ferito o gli è bruciata la baracca: sarebbe increscioso. Non lo possiamo permettere. Nel momento stesso in cui un bracciante dà la sua adesione per lavorare con NO CAP gli diciamo che avrà la possibilità di essere trasferito in una delle villette del villaggio Don Bosco».
In questi giorni, il Consiglio dei Ministri ha approvato il decreto che recepisce la direttiva europea sulle pratiche sleali nella filiera, tra cui le aste al doppio ribasso. Cosa sono e come vi riguardano?
«Tutte le problematiche che portano le persone a vivere nei ghetti hanno una matrice unica: lo sfruttamento nel sistema agroalimentare. La grande distribuzione detta legge in maniera distopica, a partire dal prezzo per finire con tutte le dinamiche che si creano nei supermercati. Tutto è impostato in maniera verticistica dall’alto, con le cosiddette pratiche sleali. Ben quindici pratiche sleali sono state contate nell’UE, tra cui l’asta a doppio ribasso. La grande distribuzione fa fare un’asta a ribasso tra i fornitori per prendere il quantitativo di merce della quale vuole rifornirsi. Dopo qualche settimana, su una propria piattaforma privata, fa fare un’altra asta ulteriormente a ribasso partendo dal prezzo già inferiore. Cerca di scavare, di togliere ancora di più, e tutto questo valore che viene tolto va a ripercuotersi sul resto della filiera e sull’anello più debole: il lavoratore. Il fatto che tu porti i tuoi rifornitori a scannarsi, a togliere sempre più centesimi dal prodotto, fa sì che poi le aziende si rivalgono sui più fragili. In un certo senso, le aziende agricole sono anche vittime di questo sistema: chiaramente non è accettabile in nessun modo schiavizzare una persona, però per sopravvivere le aziende sono portate a rivalersi sui più fragili. Quindi poi niente contratto, non si distribuiscono tute, scarpe antinfortunistiche etc. Sono tante cose che vai a togliere ai lavoratori, non è solo la questione del salario. Non ci si pensa, ma anche far lavorare un bracciante senza i guanti ha ripercussioni sulla qualità della vita dei lavoratori. E anche sulla qualità del cibo. In Francia questa pratica sleale è già illegale, in Italia siamo parecchio in ritardo».
Si può dire che la grande distribuzione è il mandante del caporalato?
«Certo, oltre alle pratiche sleali tutto ciò che succede nei supermercati è dettato da queste dinamiche: la scontistica, o la posizione fisica dei prodotti, tutto si ripercuote sulle aziende. NO CAP fa da intermediario in tutti questi rapporti, perciò si parla di filiera etica: perché comprende davvero tutti gli attori della filiera. Ci inseriamo nella grande distribuzione, vietando però l’utilizzo di pratiche sleali. Ad esempio, non sarà possibile far pagare alle aziende tutta la scontistica durante il periodo di Natale, né dettare il prezzo del prodotto. Il prezzo lo fa l’azienda: NO CAP interviene per far stabilire il giusto prezzo per permettere che vengano rispettati tutti gli standard contrattuali. I nostri prodotti possono essere trovati nei supermercati de. gruppo Megamark (DOC, Famila) e, nel napoletano, nei supermercati Sole 365 e Superò. Non costano più dei normali prodotti, altrimenti rimarrebbero invenduti. Semplicemente il guadagno viene ridistribuito più equamente tra gli altri attori. In una filiera normale, sporca, la grande distribuzione si prende i due terzi della torta, il restante se lo spartiscono molto male l’azienda agricola e i lavoratori. Invece, con NO CAP ogni attore ottiene un terzo È sempre tre, ma viene ridistribuito in maniera più equa. Nel servizio di Presa Diretta su NO CAP, lo stesso direttore di Megamark ha ammesso espressamente che con i nostri prodotti marginalizza molto meno».
Tra le attività di cui si occupa NO CAP rientra anche il rilascio del bollino etico. Cos’è e come funziona?
«Nel momento in cui regolarizziamo tutte queste dinamiche del settore agroalimentare, col bollino comunichiamo al fruitore (e non consumatore) i prodotti a marchio NO CAP. Grazie al bollino ci si può rendere conto davvero di che prodotto stiamo comprando. Noi vorremmo arrivare addirittura a fare l’etichetta narrante: dire il prezzo del prodotto e come verrà distribuito quel valore nella filiera. Che percentuale di quel prezzo andrà a pagare il lavoro, che percentuale andrà a pagare l’azienda, e che percentuale andrà a pagare la distribuzione. Il bollino per adesso consiste in delle mani, ognuna con un significato, chiuse o aperte in base al voto che abbiamo dato ad aspetti importanti della produzione. In primis il lavoro, che ha il voto fondamentale, ma poi anche altri aspetti secondari come la filiera corta, il consumo di energia o il riciclaggio dei rifiuti».
L’Associazione NO CAP collabora spesso col Governo per contrastare il caporalato e lo sfruttamento lavorativo in agricoltura. Come si sta attivando lo Stato nel contrastare questo fenomeno?
«Si fanno un sacco di incontri, il problema secondo me è che non si elabora una strategia omnicomprensiva. Per esempio, ora la Regione Puglia aprirà una nuova foresteria all’interno dell’ex CARA (Centro Accoglienza Richiedenti Asilo) di Borgo Mezzanone. È un passo avanti, ma coinvolge solo la questione dell’accoglienza per numeri molto marginali. Bisognerebbe invece proporre iniziative che partano dalla regolarizzazione delle situazioni di lavoro. Da quel punto di vista c’è solo una grandissima repressione: controlli con la finanza per scovare le situazioni di sfruttamento. Ma quello che manca è la creazione attiva di alternative, di filiere etiche. Non c’è nulla di propositivo, e il nostro lavoro è completamente autonomo e non sostenuto. Si portano avanti solo interventi estemporanei, ad esempio i vari bandi sul trasporto. Lo Stato prepara bandi per il trasporto sicuro dei lavoratori nei pulmini, ma non si preoccupa anche di dove queste persone vanno a lavorare e dove vanno a dormire. Andrebbe affrontato il tutto in maniera più complessiva, partendo dal lavoro, intervenendo nelle dinamiche della filiera. Ad esempio, imponendo prezzi minimi da pagare alle aziende».
Come possiamo sostenere NO CAP e, soprattutto, consumare eticamente?
«Da fruitore coscienzioso e critico, comprare i prodotti NO CAP e fare in modo che la spesa sia un atto politico. Comprare una pasta a 50 centesimi all’Eurospin fa la differenza: stai pagando una filiera sporca di sangue a tutti gli effetti. Diverso è comprare prodotti biologici ed etici che abbiano un prezzo giusto. Oggi, con le informazioni di cui siamo inondati, dovremmo essere davvero degli alienati per non sapere cosa c’è dietro quello che stiamo consumando. Un recente studio statistico ha stimato che ci sono passate di pomodoro per le quali il barattolo costa più del prodotto. C’è qualcosa che non va, e non possiamo ignorarlo».