L’anagramma di “pane” è “pena”. L’etimo di “pane” è affine a “padre”, colui che protegge, che dà sostentamento. La radice pâti, sanscrito, origina sia “pane” che “padre”. La Terra conta oggi otto miliardi di persone che, con altri miliardi di miliardi di viventi, hanno bisogno di cibo e acqua. Difficile, anche per variazioni climatiche (il cosiddetto diluvio, per esempio, fu originato da una post-glaciazione), che il pianeta possa soddisfare i bisogni alimentari, attuali e futuri, di chi lo abita.
Frammenti di storie delle civiltà del grano e del pane nel Mediterraneo (il pane è visto e vissuto, anche, come frammenti di un papiro da decodificare), a cura di Gianfranco Nappi e edito dalla rivista Infiniti Mondi, ci fornisce informazioni importanti sulle vicende di questo cereale seguendo le orme di viaggiatori antichi e contemporanei e suggerendo “precedenti” per le possibili soluzioni adatte all’oggi come, per esempio, il ripristinare, riacquistando competenze, il pane fatto in casa col lievito madre e l’utilizzo di cisterne domestiche per l’acqua piovana.
Le rotte del pane sono strettamente legate a quelle delle migrazioni. Già Bocchi e Ceruti, allievi di Edgar Morin, ne Le sfide della complessità (Feltrineli, 1990) elaborarono i percorsi migratori delle popolazioni dall’Asia all’Europa e viceversa. Ogni migrante aveva con sé una bisaccia da riempire di pane. A Napoli si dice: ’a famma fa ascì ’o lupo r’ ô bosco (la fame fa uscire il lupo dal bosco).
Gli studi di Bocchi e Ceruti si dovrebbero comparare con le analisi di Cavalli Sforza in ordine alla genetica e al linguaggio, i cui risultati sono sorprendenti e che, se diventassero patrimonio comune, modificherebbero il campo delle rappresentazioni mentali di ciascuno generando diversi atteggiamenti a cominciare dalla necessità della pace perché l’unico modo per vincere una guerra è non farla (Tzu Sun, L’arte della guerra). Noi crediamo che le soluzioni per il pane e la pace debbano essere rivolte a criteri di efficacia (stabilire priorità) piuttosto che di efficienza (fare meglio le cose che già si fanno).
Questo libro, Frammenti di storie delle civiltà del grano e del pane nel Mediterraneo, è efficace e documenta come ancora – soprattutto – oggi il sistema economico si basi sulla produzione di merci a mezzo merci (Sraffa). Lo abbiamo letto immaginando KR46MO (sigla identificativa del corpo di un bambino annegato a Cutro) in tutti i luoghi e i tempi narrati da Nappi, seduto sui gradini di un mulino o accanto a una noria mentre mangiava pane e olio di luna, vestito ora da arabo, ora da circasso, ora da prima comunione.
Le migrazioni attuali sono modeste rispetto alle enormi ed epiche migrazioni interne alla Cina (’59-’61) a seguito di carestie (disastri naturali ed errori politici) o ai milioni di morti in Ucraina (’32-’33) per un’altra carestia “pilotata” dall’URSS. Che cammini sul corso di Parigi o nella savana, l’uomo è un perfetto animale da preda (Baudelaire). Guardiamoci intorno. In questo preciso momento, dappertutto, in un prato, su un albero, in fondo al mare, in una savana, ai margini di un fiume africano o amazzonico, in casa nostra, un vivente divora un altro vivente. La “Natura” (Deus sive natura?) attua strategie per autoalimentarsi. All’umano il compito di evadere, con la cultura, dallo stato brado.
Il pane è un prodotto della cultura ed è la prima ricompensa attesa per il lavoro al punto che, anche nei modi di dire quotidiani, “lavoro” sostituisce “pane”. Lavorare la materia significa modificarla e, al quel punto, cambia nome. Avviene così che la creta, lavorata, si chiami vaso e che il grano, lavorato, si chiami pane, assumendo significati storici e metaforici intensi. Chi scrive è fra coloro che (Gimbutas, Neuman) ritengono che il pane sia stata un’invenzione delle donne, le arcaiche raccoglitrici. Il segno V che ancora oggi si incide sul pane prima dell’infornata è, precisamente, lo chevron (doppia V) documentato dall’autrice de Il linguaggio della dea, Marija Gimbutas, come evidentissimo rimando al sesso femminile, alla fecondità e alla vita.
È indubbia la relazione Padre Nostro-Pane Nostro (Predrag Matvejević, che narra, fascinosamente, l’avventura di questo alimento nel Mediterraneo). Di queste cose, compresa un’esegesi del Padre Nostro in aramaico, discutemmo l’anno scorso al Mulino Bencivenga, ospitando Jak Arbib (Israele) e studiando l’organizzazione del lavoro agricolo in un kibbuz. Altresì, su questi temi Infiniti Mondi ha dialogato a lungo, a Napoli, con Vendana Shiva, attivista politica e ambientalista, che si è battuta per cambiare pratiche e paradigmi nell’agricoltura e nell’alimentazione, occupandosi anche di questioni legate ai diritti sulla proprietà intellettuale, alla biodiversità, alla bioetica, alle implicazioni sociali, all’uso di biotecnologie e di ingegneria genetica.
Le rotte da percorrere oggi, con una visione non sistematica ma sistemica, sono, appunto, queste, come indicato dall’eminente storico e saggista Piero Bevilacqua, prefatore del volume.