Sta ggente senza core/ cu ’a bandiera tricolore/ cerca d’arriparà/ tutt’ ’e sbaglie ca fà./ Ma vuje nun’ò sapite/ qual è ’o dolore nuoste/ cummigliate cu ’o tricolore/ ’sti durici lavoratori. – Gruppo Operaio ’E Zezi, ’A Flobert
L’11 aprile 1975, in provincia di Napoli, a Sant’Anastasia, nella fabbrica Flobert, un’azienda di munizioni per armi giocattolo, in seguito a due esplosioni nate da una scintilla durante una lavorazione in condizioni disumane, undici dei dodici operai presenti, in quello che l’unico sopravvissuto definirà un bunker stretto e lungo senza uscite, con una sola finestra sbarrata, persero la vita.
L’unico sopravvissuto della tragedia è Ciro Liguoro che, a partire da quel giorno che ha sconvolto e smosso le coscienze di un’intera comunità, ha studiato, fatto ricerche sulle morti bianche accertate e su quelle mai riconosciute come tali. Ancora oggi, anche con l’aiuto e la collaborazione di Carlo Soricelli dell’Osservatorio Nazionale di Bologna, continua a diffondere e sensibilizzare il territorio vesuviano e l’Italia intera sulla necessità di civilizzare il lavoro.
Quest’anno, in particolare, presso la casa del Pellegrino, nel Santuario di Madonna dell’Arco, lo stesso luogo in cui si tennero le esequie delle undici vittime di età compresa fra i venti e i quarantadue anni, è stato organizzato un convegno sul tema delle morti bianche con la presenza di significativi interventi di Ciro Liguoro, della dottoressa Maria Elena Capuano dell’ANPI, dei giornalisti Sandro Ruotolo, Matteo Cosenza e Nando Morra, Carlo Soricelli e vari rappresentanti delle giunte comunali dell’area vesuviana.
Liguoro ha raccontato le tristi, dolorose inaccettabili dinamiche precedenti a quell’immane disgrazia agitando nella platea di ascoltatori sgomento, rabbia, tristezza per diversi motivi. Purtroppo, oggi, quarantanove anni dopo, le dinamiche che generano tragedie sono perfettamente sovrapponibili a quelle del 1975. Sembra non esserci nessun progresso, nessun tentativo risolutivo o quantomeno migliorativo.
Liguoro ha raccontato che la maggior parte dei lavoratori morti per l’esplosione era stata assunta solo pochi giorni prima, il 4 aprile 1975. Quegli operai avevano intrapreso il lavoro con la gioia e l’entusiasmo di chi è abituato a vivere nell’instabilità economica e si trova improvvisamente di fronte a un contratto a tempo indeterminato. Erano giovani. Erano felici e pieni di progetti.
In fabbrica avrebbero dovuto lavorare la plastica utile nella costruzione delle pistole giocattolo. Ma poi un dirigente aveva chiesto loro di fare un lavoro extra per un paio di giorni. Imbottire quelle capsule di plastica di polvere da sparo. Inizialmente si erano rifiutati, opponendo resistenza. Ma poi, rassicurati dalla dirigenza, per paura di perderlo quel lavoro appena ottenuto, avevano accettato, pagando il pane con la vita.
Erano le 13:24, mancava solo un’ora alla fine del turno di Liguoro, quando a causa di una scintilla durante la lavorazione ci fu prima un’esplosione, e poi subito un’altra, ancora più devastante. Allocca Michele, 32 anni, Barra Mariano, 24 anni, Ceriello Giovanni, 39 anni, Caruso Giovanni, 35 anni, Esposito Giovanni, 25 anni, Esposito Michele, 34 anni, Frasca Antonio, 25 anni, Florio Vincenzo, 42 anni, Mosca Giuseppe, 20 anni, Sorrentino Giuseppe, 22 anni, Savarese Antonio, 23 anni, Tramontano Antonio, 21 anni, persero la vita.
Il giornalista Sandro Ruotolo durante l’incontro commemorativo ha ricordato le statistiche. Da inizio 2024 in Italia sul lavoro sono già morte 119 persone. 121, mentre scriviamo, esseri umani. Nel 2023 1041 morti sul luogo di lavoro. I femminicidi e le morti cosiddette bianche solo le prime due cause di decesso non naturale in Italia oggi. Ruotolo ha asserito che sarebbe molto interessante fare film e documentare, scrivere libri su come si muore oggi. Sul perché si muore oggi. Non è giusto morire per vivere, ha detto. Effettivamente film, libri e documentari su come si muore oggi sarebbero lo specchio impietoso e necessario per capire come si vive in questa epoca. E di come non si lavori più per vivere, ma si viva per lavorare.
Il giornalista Nando Morra, al momento dei fatti segretario della Camera del Lavoro di Napoli, per il suo ruolo celebrò il funerale laico delle undici vittime della Flobert. Ha ricordato il dolore visto nei familiari e amici degli operai morti, ma anche la rabbia. Ha ricordato quel momento come l’inizio di una lotta per umanizzare e civilizzare il lavoro. Per umanizzare e civilizzare il lavoro, ha detto, è necessario riconoscere il profitto come l’antitesi della civiltà.
Ma l’Italia di oggi, è ancora dolorosamente troppo simile all’Italia di ieri, o forse, dal punto di vista lavorativo, anche peggiorata. Sono tante le persone che muoiono sul lavoro oltre i sessantacinque anni. Ma perché oltre i sessantacinque anni si lavora ancora? Il sistema pensionistico è un miraggio. Chi risponde di questo? Nessuno. E non lo sappiamo, o meglio, non ci pensiamo o ci pensiamo solo quando muore qualcuno, ma continuiamo a mangiare il pane macchiato di sangue.
Chi è al potere e ha potere perché non interviene? Il lavoro irregolare è sbagliato da ogni punto di vista e nessun datore di lavoro dovrebbe alimentarlo. Ma se le percentuali di dipendenti in nero sono così alte, forse andrebbero riviste anche le condizioni dei contratti attuali, per tutelare sia i datori sia i lavoratori.
In Italia esiste un ispettorato del lavoro, eppure ci sarebbe bisogno di un numero molto più alto per garantire effettivamente il controllo e la sicurezza. In Italia si muore anche per malattie professionali, una delle cause è il mesotelioma pleurico, tumore dovuto all’esposizione all’amianto. Le donne lavoratrici muoiono il doppio degli uomini, e nel 2024 ancora, la maggior parte dei decessi sul lavoro è di origine meridionale che sovente muore nei cantieri del Nord Italia e stranieri.
Dunque è necessario reagire e agire, e ricordare e mantenere vivo il ricordo, ma non per migliorare il futuro. Per migliorare il presente. Perché ogni singolo morto sul lavoro muore per vivere. E non si può morire per vivere.
E perché, se esattamente quarantanove anni dopo la tragedia della Flobert, sono morti sei operai e cinque sono rimasti feriti nella centrale idroelettrica di Bargi e non nella fabbrichetta di paese, situazioni ugualmente gravissime ma diverse, forse nulla di quello che si sarebbe dovuto fare è stato ancora fatto, o comunque non abbastanza.