Contributo a cura di Ernesto Nocera
Viaggiare fra i libri conduce spesso a gradevoli sorprese, a incontri incredibili e inaspettati. Chi di voi, leggendo, non ha collegato frasi e immagini del testo che stava scorrendo a ricordi ed esperienze già vissute? Anche a me, di recente, è capitata una di queste singolari avventure.
Il fatto che uno dei miei figli studi violino mi ha spinto a interessarmi non solo alla musica per detto strumento, ma anche alle sue origini. Uno dei testi da me consultati, quindi, è stato Storia del violino dello studioso Franz Farga, conservato presso la Biblioteca Lucchesi Palli di Napoli. Il libro, scritto nel 1938 in tedesco, è comparso in italiano nel 1962 per i tipi della Corbaccio di Milano.
Il volume non solo narra della genesi dello strumento, della sua tecnica costruttiva ed esecutiva e dei più famosi liutai, ma reca anche le biografie dei più celebri esecutori. Nel XIV capitolo, ad esempio, nel raccontare di Berlino, Mannheim e Vienna come sedi di attività violinistica nei primi decenni del Settecento, fra i musicisti più famosi dell’epoca viene menzionato Giovanni Gioacchino Quantz, uomo di umili origini, virtuoso non solo del violino ma anche dei fiati, in particolare del flauto. Fu lui, infatti, che ne introdusse la seconda chiave (la prima era stata inserita dai francesi), scrivendo su tale strumento anche un celebre trattato.
Grazie alle sue incredibili doti, venne chiamato a corte da Federico II, ottimo flautista e compositore di musica, che lo ebbe in così grande stima da dargli il compito di organizzare l’orchestra regia, incaricandolo anche di reperire i migliori esecutori disponibili per elevare il livello tecnico ed esecutivo della compagine. Giovanni Gioacchino divenne insomma, per dirlo alla moderna, un “talent scout” per conto di Sua Maestà.
Descrivendo la vita del musicista, l’autore riferisce, poi, che questi si innamorò della giovane vedova del suo collega Schindler con la quale si trasferì more uxorio. La bellissima donna, però, cominciò presto a vivere con disagio la sua condizione di “tenera amica” – al contrario di Quantz che non voleva sentir parlare di matrimonio – così, un giorno, mentre si trovava con il suo amante, ebbe improvvisamente un grave malore che fece temere per la sua vita. L’uomo, allora, corse disperatamente in cerca di un medico che, visitata l’ammalata, la diede per spacciata. La giovane vedova, fervente cattolica, chiese, quindi, un sacerdote che le desse l’estrema unzione e al quale, una volta giunto, implorò di non farla morire in peccato, pregandolo di intercedere affinché potesse sposarsi in extremis. Quantz, che versava amare lacrime al letto della morente, acconsentì.
Poiché all’epoca queste pratiche avevano bisogno della licenza reale, il prete corse a corte per impetrare da Federico la dispensa necessaria a perfezionare l’atto, la quale fu subito concessa per il grande affetto che legava il re al musicista. Le nozze, quindi, poterono celebrarsi in una commovente atmosfera.
Per farla breve, nel giro di qualche ora, l’artista, ormai ammogliato, ebbe un’incredibile sorpresa: partiti medico e sacerdote, la moribonda, allegra e vispa, saltò giù dal letto, abbracciando il suo sposo, accarezzandolo, baciandolo e chiedendogli perdono per un così ben riuscito scherzo. Al musicista, comunque, il matrimonio dovette fare bene perché raggiunse gli ottant’anni, evento raro all’epoca.
Come me, anche voi avrete riconosciuto in questa una delle scene madri della fortunata commedia di Eduardo, Filumena Marturano. La vicenda è precisa, quasi alla lettera, salvo una variante: mentre Quantz, tutto sommato, accetta la situazione, Domenico Soriano resiste a lungo prima di arrendersi alla richiesta di Filumena di riconoscere i suoi tre figli (uno dei quali è dello stesso Soriano) perché e’ figlie so’ tutte evuale.
È d’obbligo, senza malizia, una domanda: Eduardo conosceva il libro? Poiché l’edizione italiana (1962) è molto posteriore alla pubblicazione della commedia giunta sulle scene nell’immediato dopoguerra e poiché non mi sembra che il nostro conterraneo conoscesse il tedesco, cosa pensare di questa coincidenza? Forse che ci sono delle costanti nella pervicacia femminile a raggiungere uno scopo prefissato, valide in tutti i tempi e sotto cieli diversi?
Care lettrici e cari lettori, voi cosa ne pensate?