Alla recente serata della 90esima edizione dei Premi Oscar, Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson ha ricevuto soltanto la statuetta per i migliori costumi di Mark Bridges. Ci sembra poco per un capolavoro realizzato da uno dei più talentuosi registi della scena contemporanea ma, si sa, il cinema dell’ottima “confezione” e degli effetti speciali prevale da sempre nelle occasioni mondane della odierna società dello spettacolo, su quella degli “affetti” speciali.
L’opera del regista statunitense ci narra di Reynolds Woodcock, che nella Londra degli anni Cinquanta del secolo scorso veste le donne più famose e ricche. Concentrato sul suo lavoro in maniera totale e assistito dalla sorella Cyril, Reynolds ha una vita privata quasi monacale, dettata dai tempi della sua tormentata creatività e dal giornaliero lavoro nel suo atelier sartoriale.
Il grande stilista, un giorno, incontra Alma, una donna di origini straniere che lo colpisce per la sua bellezza e anche per la sua goffa ma intrigante spontaneità. La giovane è scelta come modella ma, pur essendo gratificata dalla sua nuova vita materiale, mostra di non voler fare a meno del suo spirito critico e della sua personalità ribelle. Sarà proprio questo modo di stare al mondo che finirà per sedurre Reynolds, del quale diventerà musa ispiratrice e amante.
Nella vita di Woodcock, in breve, farà la sua comparsa, prima in maniera discreta poi sempre più necessario e vitale, quel “filo nascosto” della privata e sofferta identità che si trova tra le pieghe dell’abito “pubblico” che tutti gli esseri umani indossano nella vita quotidiana.
Le prove attoriali di Lesley Manville nella parte di Cyril e di Vicky Krieps nella parte di Alma sono eccellenti, ma domina l’interpretazione del grande Daniel Day-Lewis, attore già tre volte premiato con l’Oscar, il quale ha annunciato che questa sarà la sua ultima apparizione cinematografica.
Fin dagli esordi e soprattutto con Boogie Nights e Magnolia, Paul Thomas Anderson ha mostrato di essere un acuto osservatore del teatro di vita dei nostri tempi, ma dal film Il petroliere in poi ha allargato il suo sguardo analitico, sostenuto da una grande conoscenza delle possibilità dello “strumento” cinematografico, a una vera e propria ricapitolazione della forza e delle debolezze presenti nella storia degli Stati Uniti d’America, che rimanda alla più ampia e controversa civilizzazione del mondo. A partire dai tempi lontani dell’ambientazione storica della pellicola citata, illustrati con padronanza estetica e tensione morale, il regista ci ha raccontato il genio e la sregolatezza dell’individuo che affronta la potenza e la prepotenza del potere economico, sociale e politico dell’ambiente in cui può esprimersi o perire lungo il cammino.
Con i successivi The Master e il sottovalutato Vizio di forma, tratto da un romanzo di Thomas Pynchon, inoltre, l’opera di Anderson si è arricchita nella riflessione sulla lotta impari tra individuo e società. Come affermava il filosofo Friedrich Nietzsche, l’uomo è un animale non ancora stabilizzato, poiché privo di quel patrimonio istintuale che nell’animale determina in maniera “rigida” ma più sicura la vita dalla nascita alla morte, mentre gli esseri umani sono più “liberi” ma indifesi.
Per affrontare la loro esistenza personale e collettiva, gli uomini e le donne, in effetti, devono costruire i codici morali che determinano anche i confini della loro azione e della possibilità di vivere i sentimenti. Il filo nascosto riassume in maniera mirabile questi temi, che appartengono a un cinema “altro” e alla capacità artistica e umana di un autore che unisce la ricerca estetica a una riflessione articolata sulla condizione umana.