In un’intervista realizzata in uno dei tanti Incontri del sabato organizzati da Roberto Minervini, il giornalista partenopeo incontrò colui che definì il fotografo storico di Napoli, Ferdinando Lembo.
“Sessantamila negative di ogni formato e di ogni tempo, divise o sparse sui tavolini, custodite nelle scatole o ammucchiate negli scaffali che salgono fino al soffitto, in tutte le stanze, costituiscono l’unico patrimonio, la sola ricchezza di Ferdinando Lembo, il fotografo storico di Napoli. Oggi, forse, questa cifra non dice molto, ma si pensi che nella sua qualità di decano dei fotografi, egli vanta un primato: quello di aver dedicato la sua vita unicamente all’arte, agli artisti e ai monumenti, con l’unico intervallo della prima guerra mondiale, durante la quale, al fianco di Diaz e passando dai dirigibili alle trincee, anticipò quella funzione giornalistica riservata oggi al foto-reporter. Per favorevoli coincidenze egli si è trovato presente, con la sua macchina, ad episodi di supremo interesse universale, come, ad esempio, la scoperta della Casa dei Vettii a Pompei o i primi ritrovamenti archeologici di Baja.
Pur dichiarandosi un modesto ed umile artigiano, i sessant’anni di mestiere egli li ha trascorsi in fedele e salda amicizia con artisti come Palizzi e Toma, Morelli e Cammarano, Mancini e Michetti, per non dire della folta schiera degli altri pittori e scultori dell’800 e del primo ‘900, di cui riprodusse sempre le opere. Di Eduardo Dalbono non fotografò solo le tele e gli acquerelli, ma tutti i gatti di cui il Maestro si circondava. Vincenzo Gemito lo ebbe carissimo, e sebbene pretendesse di porre lui in luce le sculture da riprodurre, costringendolo sistematicamente a sciupare lastre e pellicole, gli manifestò una costante ammirazione: lo stimava al punto che un giorno, preso dalla euforia di volere egli stesso posare, vecchio com’era, per un «Narciso», si spogliò dinanzi al Lembo e disteso sul giaciglio che gli serviva da letto, ogni notte, nel suo studio, pretese di essere fotografato nudo.
Nel lungo «film» della sua vita, fermato in gran parte fra le mura della casetta in cui egli vive, senz’altro conforto che questo e senz’altra compagnia che questa, esse sono ritratte in un plastico rilievo di luci e di ombre ed in particolari pose ed atteggiamenti che ricordano tutti, attraverso centinaia e centinaia di «fotogrammi», la composizione di un quadro: Ettore Pais ed il giovane avvocato Enrico De Nicola, fra gli autoritratti di Gaetano Esposito e di Vincenzo Migliaro; Giovanni Porzio con la bombetta, fra una tavoletta di Consalvo Carelli ed il bozzetto del famoso quadro Nuda con maschera di Giacomo Grosso. E si potrebbe continuare. Innamorato come pochi di un’epoca e di una città che egli amò, in segreto, con devota e filiale fedeltà, Ferdinando Lembo è benemerito, fra l’altro, di aver dedicato il suo fervore, il suo gusto e la sua tecnica anche ai più antichi ed ora scomparsi angoli di Napoli. In quelle scatole, su quegli scaffali e su quei tavolini, egli custodisce le foto di certe piazzette, certe strade e certi vicoli, nella pittorica e pittoresca scenografia che il piccone doveva poi annullare per sempre, mentre la mano di lui, artigiano diventato artista, faceva puntualmente scattare un obiettivo, storico come lui.” (da R. MINERVINI, La Napoli di Roberto Minervini, A. Gallina, Napoli 1999, pp. 222 – 224)
Le notizie su questo fotografo poco conosciuto oggi potrebbero essere ampliate ulteriormente dalla testimonianza del pronipote Giovanni Lembo che si fa forte dei materiali d’archivio in suo possesso – custoditi gelosamente e che non intende al momento rendere noti – e di una serie di ricordi orali tramandati in ambito familiare su Ferdinando e la sua arte.
Nel corso di un incontro con Giovanni Lembo, ho raccolto alcune notizie che oggi mi permettono di ricostruire, solo in parte, la vita del grande fotografo.
Ferdinando Lembo nacque a Capri nel 1879 e morì a Napoli nel 1958. Nei primi anni del Novecento, ebbe la possibilità di scattare le foto del ritrovamento della Casa dei Vettii a Pompei, come già raccontato dalla entusiastica intervista del giornalista Minervini. Grazie a questa importante occasione professionale, Lembo può essere considerato il primo fotoreporter archeologico sul campo della storia.
Grazie alla sua ottima tecnica fotografica, divenne fotografo ufficiale del Museo Archeologico Nazionale di Napoli nonché di quello di San Martino. Di quest’ultimo, ancora Giovanni Lembo ricorda le cartoline di Ferdinando, prodotte in quegli anni, che ritraevano l’interno della Certosa di San Martino e i quadri presenti nel museo stesso.
Con una punta di ironia, Giovanni Lembo ha raccontato che il suo antenato, anche se abile fotografo, era particolarmente lento nelle consegne, ricordando e citando una lettera di Matilde Serao nella quale la scrittrice lo esortava alla consegna del “book” fotografico richiesto che la ritraeva. Il carattere della lentezza è menzionato anche in un’altra epistola, ben più nota e pubblicata il 29 marzo 1912, che possiamo utilizzare per ricostruire la storia professionale e umana di Ferdinando Lembo. Si tratta di una missiva scritta da Eduardo Dalbono: “Caro Lembo, abbiate la compiacenza di farmi tenere al più presto le due copie (ottime) delle due ultime pitture, come già da molti giorni vi ho pregato […] saluti cordiali. Dalbono.”
Il primo studio fotografico di Ferdinando Lembo si trovava in Via Domenico Morelli al numero 30, il secondo invece in Via Tommaseo numero 9, così com’è possibile constatare attraverso i timbri apposti dietro alcune fotografie trovate presso l’Archivio Fotografico della Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Napoli e Pompei.
A causa della sua salute cagionevole e della mancanza di figli, il fotografo decise di “adottare” un pittore napoletano, Lionello De Lisio, che divenne il suo figlioccio.
Lionello De Lisio ben presto iniziò ad aiutare Lembo nel suo studio, imparando le tecniche del maestro e apportando con il tempo la modifica, forse di natura più commerciale che artistica, nel timbro che apponeva dietro ogni fotografia (“collezione d’arte già Lembo, De Lisio”).
Giovanni Lembo ha concluso la traccia dei ricordi con la data di morte di Ferdinando, il 1958, e con la certezza di un’anonima sepoltura in una fossa comune, forse nell’area non più attiva in quegli anni del Cimitero delle 366 fosse.
A contribuire ulteriormente all’oblio in cui è venuta a cadere la figura del geniale artista, inoltre, è stata la volontà del figlio adottivo ed erede che, per questioni economiche, lo portò a decidere di smembrare l’archivio fotografico del suo padre e maestro, provocando la dispersione di gran parte delle fotografie scattate nel corso della vita di Ferdinando oltre che di certo di altro materiale documentario.