Muoiono due volte le vittime di femminicidio in Italia. Quando si fanno coraggio e si affidano allo Stato e quando se ne vanno davvero. Come Marianna Manduca, uccisa dal marito a soli 33 anni il 3 ottobre del 2007. Prima che Saverio Nolfo la accoltellasse, Marianna lo aveva denunciato 12 volte, in un lasso di tempo talmente breve da dover necessariamente significare urgenza. Le sue richieste di aiuto, però, erano cadute nel vento, così, nonostante lei stessa avesse dichiarato che il padre dei suoi figli la minacciasse quotidianamente con un coltello dal quale non si separava mai, nessuno aveva impedito a quell’arma di strapparla ai suoi tre bambini e a una vita ancora tutta da scrivere.
Come Giordana Di Stefano, 20 anni, uccisa nel 2015 dall’uomo che amava. 48 coltellate e Asia, uno scricciolo da lasciare ai nonni. La mattina successiva avrebbe dovuto attendere il suo assassino in aula, ma Luca Priolo, imputato nel processo per stalking nato da una denuncia da lei firmata nel 2013, prima l’aveva ammazzata, poi aveva tentato la fuga in Svizzera. Nel gennaio 2019 a suo carico è stata confermata una condanna per 30 anni.
Come Deborah Ballesio, colpita al petto con un’arma da fuoco ad appena 39 anni. A spararle, mentre si esibiva come cantante sul palco dei Bagni Aquario di Savona, Domenico Massari, l’ex marito. Ti ricordi di me? Finalmente ti ho trovata. A nulla erano valse le 19 denunce nei suoi confronti, tantomeno la condanna a 3 anni e 2 mesi di reclusione per aver incendiato il locale e la casa di Deborah, evasa per patteggiamento.
Ma nel Paese che vanta la media di un femminicidio ogni tre giorni, i casi di donne che hanno denunciato a vuoto – anche a più riprese – i rispettivi compagni e non solo sono tantissimi. Talmente tanti che, spesso, finiscono con l’inibire chi subisce violenza a rivolgersi alle autorità per non sentirsi ancora più sola e impotente, destinata a una morte che sembra inevitabile, la punizione per aver amato la persona sbagliata. E, invece, amare non è mai uno sbaglio.
L’errore, piuttosto, è quello di uno Stato incapace di ascoltare e proteggere, di garantire la giusta tutela a ogni sua componente, a chi a esso si affida – o dovrebbe affidarsi – per evitare di finire in prima pagina, immortalato per sempre in un sorriso inconsapevole di essere l’ultimo. Come quello di chi resta anche a telecamere spente, quando la notizia non fa più rumore, ma il vuoto della perdita miete altre vittime.
A tal proposito, è di questi giorni lo sfogo di Carmelo Calì, il cugino di Marianna Manduca che insieme a sua moglie Paola Giulianelli, ha accolto e poi adottato quei bambini oggi ragazzi di 18, 17 e 15 anni. A loro, lo Stato aveva garantito un risarcimento di poco più di 250mila euro, soldi che adesso rivorrebbe indietro: «Se lo Stato si riprenderà il risarcimento che i figli di Marianna hanno ottenuto dopo l’assassinio della loro madre, mi chiedo quante donne continueranno a denunciare i loro aguzzini. Abbiamo fatto un processo e vinto. Ma non avevamo fatto i conti con uno Stato che abbandona i figli del femminicidio».
Il riferimento è al procedimento avviato contro i magistrati che avevano ignorato le denunce e per il quale, in primo grado, era stata riconosciuta la responsabilità civile e il risarcimento di cui sopra. Nel marzo del 2019, però, la Corte d’Appello di Messina ha ribaltato il verdetto e la Presidenza del Consiglio ha richiesto ai ragazzi l’intera somma. Impietosa la motivazione riportata dall’avvocato D’Amico: «Affermano che la volontà omicida dell’uomo fosse talmente forte che, anche se avessero protetto Marianna, lui l’avrebbe uccisa comunque». Un brivido sposa la certezza di essere soltanto vittime, soltanto notizia, soltanto indifese. Dunque, la morte di una mamma non è bastata, ora si attende la sentenza.
«Se in Cassazione andrà male, perderemo la possibilità di costruirci un futuro. Nessuno ha ascoltato mia madre Marianna, nessuno ha impedito che venisse assassinata. Adesso ci tolgono tutto, è una vera ingiustizia», ha commentato Carmelo Calì, il primogenito di Manduca che porta il nome del padre adottivo. Come lui e i suoi fratelli, moltissimi gli orfani dei crimini domestici a cui lo Stato volta da tempo le spalle.
Basti pensare che, sebbene l’11 gennaio 2018 fosse stata approvata la legge 4 – entrata in vigore il mese successivo –, il decreto attuativo necessario è arrivato da appena pochi mesi. Soltanto da quest’anno, infatti, dovrebbero prendere il via i fondi destinati ai figli delle vittime di femminicidio. Ad annunciarlo è stato il Ministro dell’Economia Roberto Gualtieri in occasione della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne dello scorso novembre: «I soldi non restituiscono l’affetto mancato ma finanzieranno borse di studio, spese mediche, formazione e inserimento al lavoro». Previsto, inoltre, un contributo economico mensile a chi si prende cura dei minori rimasti soli e sgravi fiscali a chi assumerà i ragazzi coinvolti che, in prima persona, dovranno preoccuparsi di farne richiesta. Un decreto arrivato certamente tardi ma che si spera possa realmente sostenere le famiglie private di un amore insostituibile.
Le poche stime rese note parlano di circa 1700-1900 orfani compresi tra gli 0 e i 18 anni, ma resta comunque difficile stabilire con certezza quante siano le vittime collaterali – e, in quanto tali, invisibili – di femminicidio. Una parola entrata ormai nel vocabolario quotidiano senza che ci faccia più impressione, normale come tutte le nefandezze di una società incapace di educare all’amore e al rispetto dell’altro, in questa caso una donna, spesso – troppo spesso – martire di quella malsana concezione di sentimento uguale possesso, violenza, sopraffazione, avallata talvolta persino dal cattivo giornalismo.
Una società che, ancora, guarda alla femmina come oggetto e mai come soggetto, valletta ma non presentatrice, uccisa per troppo amore, per gelosia, per un passato difficile, nella fragilità dell’alcol o di un raptus momentaneo. Pure quando questo momento dura 1, 12, 19 denunce. Uccisa da un uomo, dunque, ma anche dallo Stato. Da chi avrebbe dovuto amarla e da chi avrebbe dovuto proteggerla e non lo ha fatto. Non lo fa quasi mai.
Se i figli di Marianna Manduca saranno costretti a restituire quei soldi, quindi, soprattutto per l’assurda motivazione resa nota – un’ammissione di colpevolezza mista alla totale inadeguatezza di un’autorità che non può definirsi tale – quante ancora saranno le donne pronte a denunciare le violenze subite? Quante chiederanno aiuto, consapevoli che nulla potranno fare per evitare di essere ammazzate e per tutelare i loro bambini da un’eventuale querelle statale? Basterà il monologo di Rula Jebreal per illuderci di aver individuato – e affrontato – il problema? O le lacrime degli astanti saranno soltanto l’ennesima presa in giro? Quando e se i giochi di governo ricominceranno, quel fondo tornerà un salvadanaio vuoto?
Muoiono due volte le vittime di femminicidio in Italia. Quando si fanno coraggio e si affidano allo Stato e quando se ne vanno davvero. Quando la loro morte è soltanto un altro nome da aggiungere alla lista.
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