Lega: associazione, per lo più a carattere politico o sindacale, costituita sotto il segno di un’intima collaborazione e dell’urgenza di un’azione comune. Basta sfogliare un qualunque dizionario della lingua italiana, scorrere lungo le pagine fino alla lettera L, per trovare la sopracitata definizione. Alla luce degli eventi recenti – in verità fin troppo ciclici nelle cronache del nostro Paese –, ho sentito il bisogno di verificare la mia conoscenza del vocabolo in questione, probabilmente ignorante dei lati oscuri che, stando ai fatti, la stessa doveva nascondere.
Come il lettore può testimoniare da sé, l’esplicitazione di cui sopra non prevede atti volti a ledere terzi come, invece, le vicende a cui si sta per fare riferimento testimonierebbero. Tuttavia, a conferma della sistematicità degli eventi a carattere ambiguo, alcuni vocabolari hanno ritenuto di dover allegarne l’estensione: accordo tra persone, spesso segreto e ai danni di altre; l’insieme delle persone che stipulano l’accordo SIN combutta: far lega con qlcu.
Alzi la mano chi – stando a quanto sopra descritto – non ha pensato, di primo acchito, alle verdi felpe del partito politico oggi guidato da Matteo Salvini. Fin qui tutto facile, penserete. E, in effetti, quella del Carroccio non è l’unica Lega che ha fatto, recentemente, parlare di sé. A farle compagnia, un’altra omonima organizzazione, la Serie A di calcio, ognuna con le sue buone ragioni per essere al centro delle polemiche. Incredibile, ma vero, ad accomunarle è l’argomento più discusso delle ultime settimane: l’epidemia da coronavirus.
Cominciamo da loro, ormai habitué delle attenzioni di questo giornale, stavolta interessato alle esternazioni di un esponente del partito un tempo separatista e, oggi, simbolo del sovranismo tricolore che loda famiglie e formaggi dal Nord al profondo Sud. Dev’essere dura la vita di chi ha bisogno di reinventarsi continuamente perché argomenti non ha, ma soltanto nemici da porre al mirino sempre armato dei propri seguaci. Laddove, fino a qualche anno fa, l’onore del loro sdegno era interamente riversato a qualunque forma vivente abitasse le terre al di sotto del Rubicone, con il tempo le attenzioni di Bossi e compagni si sono spostate, con il Capitano, prima all’Europa e alla sua moneta, poi ancora oltre il Mezzogiorno, lambendo le coste dell’Africa nera. Soffocare la propria natura, però, non è un’azione possibile da sostenere tutta una vita.
Ed è così che i drammatici contagi da Covid-19 sono diventati il pretesto per spogliare la maschera – fatta la pace del Governatore lombardo Fontana che manco è stato capace di indossare quella sanitaria – e tornare a guardare dall’alto in basso, e non solo geograficamente, i popoli del Meridione, in particolar modo i napoletani. Il Consigliere della Lega di Pavia si è così espresso sulla sua pagina Facebook: Noi lombardi veniamo schifati da gente che periodicamente vive in mezzo all’immondizia (napoletani et similia), da gente che non ha il bidet (francesi) e da gente la cui capitale (Bucarest) ha le fogne popolate da bambini abbandonati. Da queste persone non accettiamo lezione di igiene: tranquilli, alla fine di tutto questo, i ruoli torneranno a invertirsi.
Non è tanto l’odio represso che salta fuori a far specie, tutt’altro, quanto la frase forse meno evidenziata dai quotidiani. Che Napoli sia, spesso, sinonimo di monnezza è causa di negligenza di tutte le fonti d’informazione, nessuna esclusa. Non vi è bisogno di sfogliare una copia di Libero per accorgersi che il luogo comune verso la città del Vesuvio sia fonte di reddito per pennivendoli e mezzobusto di una buona fetta d’Italia. È, infatti, quel i ruoli torneranno a invertirsi l’espressione peggiore, scritta – sembra di sentirlo – con i denti stretti, lo sdegno, anche al netto delle ipocrite scuse convenzionali. In tempi di autonomia differenziata venduta come il provvedimento atto a garantire responsabilità e rilancio a favore anche delle regioni del Meridione, l’uscita infelice – ma recidiva – del Consigliere Niccolò Fraschini chiarisce la reale natura di quella che a chiamarla con il proprio nome, separazione, non avrebbe portato i voti di quanti hanno invece scordato le offese perpetrate negli anni dai verde vestiti e i tentativi di depauperamento dello Stato centrale ai danni delle nostre terre.
L’altra Lega su cui non siamo riusciti a glissare – nonostante disinteressati dai fatti di sport –, dicevamo, è quella che controlla la massima serie del campionato di calcio italiano. Al centro del dibattito, ancora una volta, sono finite le decisioni che minano alla credibilità di tutto il sistema e che – stando al parere di tifosi e qualche addetto ai lavori – favoriscono la solita parte. L’emergenza coronavirus ha imposto il rinvio di partite che avrebbero, altrimenti, visto il radunarsi di migliaia di persone negli stadi delle zone più a rischio, nelle regioni Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna e Piemonte. Fin qui, nell’ordine di salvaguardare la salute pubblica, nulla da obiettare, se non l’eventualità di fermare per intero la Serie A come ad esempio avvenuto in Svizzera.
Antipatico – per adoperare un eufemismo – è stato, però, il dibattito scaturito attorno al match clou della ventiseiesima giornata, la sfida al vertice tra Juventus e Inter, in un primo momento autorizzata a disputarsi senza tifosi a popolare gli spalti poi, solo venerdì sera, rinviata in un mese di maggio che, di fatto, non allineerà le compagini in competizione sui vari fronti e che, dunque, rischierà di minare alla regolarità del campionato stesso.
Il no all’eventualità delle partite a porte chiuse negli stadi coinvolti dai provvedimenti dei Ministeri dello Sport e della Salute deciso dalla Lega Serie A – soluzione invece adottata dalla UEFA nel caso della partita di Europa League che ha visto protagonista proprio l’Inter a San Siro giovedì scorso – non suona come un tentativo di salvaguardare uno Stato che altrimenti sarebbe apparso malato agli occhi del mondo, ma un triste autogol che quello stesso aggettivo rischia di associarlo a un ambito, quello del pallone, troppe volte messo in discussione per logiche che nulla hanno a che fare con le uniche cose che si dovrebbe salvaguardare davvero: la correttezza e i valori dello sport.
Rino Gattuso – l’allenatore del Napoli, prossimo avversario dell’Inter in Coppa Italia – e Beppe Marotta – dirigente dei nerazzurri –, non a caso, hanno adoperato l’epiteto di campionato falsato, di interesse per la salute messo al gioco di quello economico: «È contro la logica della tutela della salute pubblica, presupponendo, di fatto, la scomparsa dell’allarme coronavirus nel giro di sole 24 ore» (la Lega Serie A aveva proposto all’ad di far slittare Juventus-Inter di appena un giorno per consentire l’accesso ai tifosi bianconeri). Che, in questa convulsa domenica, avrebbero dovuto affrontarsi proprio l’Inter e la Juventus è una casualità che, ancora scossi dal ricordo di Calciopoli, rende tutto più nauseabondo.