Il 19 agosto di ottantasette anni fa moriva fucilato uno dei poeti e drammaturghi più amati di sempre: Federico García Lorca. Sono particolarmente affezionata a questo autore granadino, nonostante io non sia affatto un’esperta di poesia – mi limito a leggere ogni tanto qualche raccolta o a recuperare i classici, soprattutto ispanici e sudamericani –, perché creatore di uno dei componimenti poetici più emozionanti, più musicali e ipnotici, a mio avviso, che siano mai stati scritti: Gacela del amor imprevisto, tradotto in italiano con Gazzella dell’amore imprevisto, contenuto nella racconta di Poesie d’amore (la mia versione è edita da Guanda).
A voler essere precisi, tuttavia, questa poesia è solamente la prima di una serie di dodici che compongono la prima parte del poemario Diván del Tamarit, testo poetico pubblicato postumo che raccoglie tutti i simboli della poesia lorchiana, nonché il suo legame ancestrale con la cultura arabo-andalusa.
Sappiamo che Lorca fu sostenitore delle forze repubblicane durante la guerra civile spagnola (1936-1939), che fu omosessuale, socialista, amico/nemico di Buñuel e Dalí, soggetto di una tentata damnatio memoriae da parte del regime franchista – ovviamente destinata all’insuccesso – e che morì troppo presto, alla sola età di trentotto anni. In questi casi ci si chiede sempre cosa sarebbe successo se persone così geniali fossero sopravvissute, se fossero arrivate alla vecchiaia, e inevitabilmente ci si rammarica per ciò che non è stato scritto.
Personalmente ho avuto modo di leggere Sonetti dell’amore oscuro, Poesie erotiche e la citata raccolta Poesie d’amore, Gioco e teoria del duende e infine Canti gitani e andalusi, dunque una piccolissima parte della sua produzione letteraria e teatrale, accomunata da una sensualità orientaleggiante e una spinta che porta il romanticismo, inevitabilmente, verso la morte o l’autodistruzione. Riassunto perfetto di tutto questo è la poesia Gazzella dell’amore imprevisto che ho trascritto e ricopiato talmente tante volte da averla imparata a memoria (di fatto, è l’unica poesia che sono in grado di recitare).
Non sono ovviamente la persona più adatta a decifrare la poesia lorchiana, ma voglio riportarla qui, ancora una volta, con la sua traduzione (trascrivo quella presente nel volume a cura di Piero Menarini, Guanda, 2017):
Nadie comprendía el perfume
de la oscura magnolia de tu vientre.
Nadie sabía que martirizabas
un colibrí de amor entre los dientes.
Mil caballitos persas se dormían
en la plaza con luna de tu frente,
mientras que yo enlazaba cuatro noches
tu cintura, enemiga de la nieve.
Entre yeso y jazmines, tu mirada
era un pálido ramo de simientes.
Yo busqué, para darte, por mi pecho
las letras de marfil que dicen siempre,
siempre, siempre: jardín de mi agonía,
tu cuerpo fugitivo para siempre,
la sangre de tus venas en mi boca,
tu boca ya sin luz para mi muerte.
Nessuno comprendeva il profumo
dell’oscura magnolia del tuo ventre.
Nessuno sapeva che martirizzavi
tra i denti un colibrì d’amore.
Mille cavallini persiani dormivano
sulla piazza con luna della tua fronte,
mentre io stringevo per quattro notti
i tuoi fianchi, nemici della neve.
Fra gesso e gelsomini, il tuo sguardo
era un pallido ramo di sementi.
Cercai, per donartele, nel mio cuore
le lettere d’avorio che dicono sempre,
sempre, sempre: giardino della mia agonia,
il tuo corpo ormai per sempre fuggitivo,
il sangue delle tue vene nella mia bocca,
la tua bocca senza più luce per la mia morte.
Si tratta di una dichiarazione d’amore criptica e speciale per diversi motivi: anzitutto, potrebbe essere dedicata sia a un amante uomo che a un’amante donna. La magnolia, fiore orientale dal colore candido, qui viene declinata con una connotazione “oscura”, dunque il rimando erotico al fiore come organo sessuale si colora, nel vero senso della parola, di una nota cupa, quasi nefasta, tant’è che si potrebbe tradurre come simbolo di una passione proibita, tenuta in segreto.
La questione dei cavalli persiani richiama immediatamente Le mille e una notte: Andrew A. Anderson, uno studioso di García Lorca, sottolinea quanto questa immagine evocativa sia in realtà metafora dei riccioli dell’amato o dell’amata, che spiccano di nero sul biancore della “piazza” della fronte, dunque una fronte larga, aperta, sincera forse. Tanto la luna potrebbe essere, a causa della sua ubicazione, parafrasi del terzo occhio di Stanislavskij o dell’occhio interiore che rimanda al sogno, all’illuminazione, alla chiaroveggenza. Si potrebbe, in questo senso, dare alla figura dell’amante un’aura di sacralità.
Successivamente un contrasto che amo molto: il gesso e il gelsomino, anche stavolta entrambi bianchi, come pure il “pallido” ramo e le lettere d’avorio, contro il cuore sofferente, il giardino sterile e il sangue nelle vene. A livello pittorico, il bianco contro il rosso riesce a dare forza visiva a una passione che è chiaramente tormentata. Non per niente il poeta scrive “giardino della mia agonia”: potrebbe essere un rimando al giardino dell’Eden? Oppure il corpo stesso dell’amante è luogo potenzialmente fertile ma inaccessibile, ormai sfiorito?
E dopo la tripla ripetizione di “siempre”, ecco il sangue delle vene nella bocca altrui, quindi un morso, un fervore estremo causato da un eccesso di desiderio o di rabbia, meglio ancora di frustrazione, che, come dicevo poco fa, conduce inevitabilmente alla morte senza più luce.
Mi piace particolarmente questa poesia non solo perché canta letteralmente, ma perché riassume alla perfezione la lirica di García Lorca: uno stile tra sogno e realtà, la forza dell’erotismo contro quella distruttiva dell’annientamento fisico ed emotivo, il conflitto di un uomo non libero di amare chi voleva, la fatalità, la sensualità del mondo andaluso massicciamente influenzato dalla cultura araba, il dramma, la teatralità, il lirismo dell’angoscia e della malinconia.
Consiglio la lettura de Il sole dell’Andalusia, di Nozze di sangue, delle raccolte di poesia e, se riuscite a recuperarlo, del Divano del Tamarit: esiste una versione pubblicata da Marsilio nel ’93 e poi nel 2001.