Sin da bambini, dai primissimi giorni successivi all’acquisizione di quella confidenza necessaria a restare in equilibrio sui nostri piedi, quella che ci consente di correre liberi lungo il corridoio di casa, così come nei prati, immaginiamo di emulare le gesta degli sportivi alla TV. Gesti involontari, semplici, come tirare calci a un pallone o direzionarlo verso un cestino con le proprie mani. Probabilmente vestendo una t-shirt colorata con un grosso sponsor sul petto e un nome altrui sulle spalle, il nome di un campione che appena conosciamo, ma che sentiamo urlare da papà alla domenica o da qualche fratellino o cuginetto più grande.
Cresciamo tutti, infatti, nel mito dei calciatori, quei modelli strapagati che giocano nei migliori stadi del mondo e conducono una vita che difficilmente si rivelerà altrettanto buona e semplice anche nei nostri confronti. Eppure, di quelli – diciamoci la verità – una volta cresciuti non avremo più la stessa opinione di invincibilità e integrità sportiva e morale per la quale non oseremmo neanche dubitare in età adolescenziale. Li etichetteremo spesso come mercenari o venduti, e non troveremo più in loro quell’attaccamento allo sport che, invece, continueremo imperterriti a conservare noi.
Sono pochissimi, difatti, quei calciatori che superano le bandiere, che non appartengono soltanto alla tifoseria della propria squadra, quelli per i quali applaude il mondo intero al loro passare. Ai più verranno alla mente i nomi dell’ex capitano dell’Inter, Javier Zanetti, o della maltrattata bandiera milanista Paolo Maldini, così come quello del figlioccio di Alex Ferguson in quel di Manchester, Ryan Giggs.
Ciò nonostante, non è di questi che vogliamo tessere le lodi. Il fenomeno senza tempo che, a nostro avviso, merita l’appellativo con il quale abbiamo titolato questo articolo, tutto ciò che uno sportivo dovrebbe essere, è il tennista svizzero Roger Federer.
Novanta titoli vinti in carriera, diciotto trofei dello Slam, sette volte campione sull’erba sacra di Wimbledon, ultimo Open conquistato quest’anno, in Australia, a trentasei anni, condito dall’ennesimo Master 1000 solo una settimana fa. Potremmo già chiuderla qui per raccontare il miglior giocatore con la racchetta di tutti i tempi, il più grande della storia, una leggenda vivente che ha incantato e ancora non smette di entusiasmare i tifosi di tutto il globo. Eppure, ciò che davvero ha reso unico il tennista nativo di Basilea, tanto da essere amato da chiunque, in ogni arena di qualsiasi continente, è il suo stile elegante e discreto fuori dal campo, al pari del suo rovescio una volta vestiti la polo e i calzoncini.
David Foster Wallace, scrittore statunitense, autore di romanzi di successo tradotti in tutto il mondo, in una sua ode dedicata proprio al campione svizzero, richiama l’attenzione del lettore su quelli che egli stesso ama definire “Federer Moments”, dei quali è fortemente affetto: “Ci sono delle volte, quando guardi giocare il giovane tennista svizzero, in cui la mascella scende giù, gli occhi si proiettano in avanti ed emetti suoni che inducono il coniuge nell’altra stanza a venire a vedere se ti è successo qualcosa.”
Chiunque abbia mai visto un solo game in cui Federer è stato protagonista in campo, conosce a meraviglia quegli istanti, attimi in cui si ha la netta sensazione di essere trasportati in un mondo parallelo, fortunati spettatori di un gioco di leggerezza e luci che mai più ricapiterà. Dritto, rovescio, servizio, volée, la danza scivola via come su una musica d’archi, è ciò che fanno anche gli altri, eppure non è la stessa cosa.
Si dice che questa dote appartenga soltanto ai prescelti, a quelli che sono delle concrete trasposizioni di un qualche Dio voglioso di divertirsi e divertire, e come per la religione, appunto, non c’è altro da fare che credere. Guardar giocare Roger Federer, ancor più, se possibile, nell’età che avanza inesorabile e che lo ha costretto, durante le ultime due stagioni, a umane sconfitte, ricorda il modo leggero, apparentemente senza sforzo, con cui Michael Jordan volava sui parquet d’America, Mohammed Ali volteggiava sui ring della boxe, o Ayrton Senna guidava una Formula 1 a trecento chilometri orari.
Non vi è sabbia, cemento o filo d’erba che Federer calpesti che non si trasformi nel proprio giardino di casa, il pubblico è suo soltanto, pazzo, incredulo, riconoscente. Agli avversari non resta che accettare di essere parte della storia, magari anche batterlo, e tuttavia sapere di non essere protagonisti di una scena, di uno sport, che si scriverà per sempre nel suo nome.
La bellezza non è l’obbiettivo degli sport di competizione, ma lo sport di alto livello è uno degli ambiti in cui la bellezza umana ha le maggiori probabilità di esprimersi. Il rapporto è più o meno quello che intercorre fra il coraggio e la guerra. La bellezza umana di cui parliamo in questa sede è una bellezza di tipo particolare: la potremmo chiamare bellezza cinetica. La sua forza e il suo fascino sono universali.