Pochi giorni fa, mi è arrivata una strana notifica da Facebook. Più che strana, inaspettata. Un commento che avevo lasciato sotto il post di un contatto era stato eliminato. Non si trattava di un commento offensivo, ma riguardava un tema politico – e non solo – che suscita parecchi nervosismi tra la popolazione, quindi era plausibile che qualcuno l’avesse segnalato, ma inconcepibile che Facebook l’avesse cancellato. Poi, ho letto meglio il messaggio della piattaforma e ho scoperto che non c’erano state segnalazioni: semplicemente, qualche algoritmo aveva notato le ripetizioni di alcune frasi e classificato lo scritto come potenziale messaggio promozionale.
L’eliminazione del mio intervento, in sé, non è stata tanto un problema: l’ho semplicemente riformulato in modo che a Facebook non sembrasse più spam, l’ho ripubblicato, ed è andato a buon fine. Il problema, invece, è stato un altro: il mio commento era un tentativo pacifico di rimediare a un post disastroso che avrebbe dovuto essere segnalato; l’insensata policy di Facebook, in cambio, ha fatto fuori le mie innocue parole e ha lasciato indisturbata una pericolosa fake news. È evidente che qualcosa non quadri.
Il post in questione riportava una notizia che i giornali non dicono, così annunciava in maiuscolo con uno di quei tormentoni dei complottisti che si sentono abbastanza furbi da sventare ogni cospirazione. In particolare, riportava le parole di un disegno di legge, con tanto di fotografia di un piccolo estratto contenente le frasi incriminate – rigorosamente evidenziate in rosso – e con allegato il link che rimandava al testo completo sul sito del Senato, in modo che la dichiarazione potesse essere verificata e risultare inequivocabile. La proposta di cui si parlava utilizzava vocaboli molto simili a quelli contenuti nel Ddl Zan, il disegno di legge in stallo da mesi che ha lo scopo di allargare la condanna delle discriminazioni a tutte le categorie scarsamente tutelate: il problema segnalato, però, era che nell’estratto non si chiedeva solo che nessuno fosse discriminato sulla base del proprio essere omosessuale o transessuale, ma che tra le categorie da proteggere comparissero anche i pedofili.
Lo sdegno dell’autore, che chiaramente voleva essere suscitato anche nel lettore, era palpabile nella forma ma, ancora di più, era evidente l’urgenza che quel post stava denunciando. E come negare l’evidenza, dato che cliccando sul link allegato si giungeva effettivamente al testo della legge sul sito del Senato e si riscontravano esattamente le frasi riportate? Un cittadino che sfoglia quotidianamente i giornali magari non ha letto il testo del Ddl Zan direttamente dalla fonte, però si è imbattuto in così tanti articoli che lo citano testualmente da comprendere immediatamente che c’è qualcosa che non torna in un post del genere e che i concetti espressi non sembrano proprio quelli del disegno di legge di cui si parla da settimane. Un utente che, invece, ha già qualche dubbio sul ddl – che sappiamo non gradire a molti – può essere incuriosito dal post e vedere i propri dubbi confermati da quel link che pare inequivocabile.
Proprio per scongiurare questo problema, ho digitato un paio di ricerche su Google, ho preso il testo del Ddl Zan dal sito del Senato e l’ho confrontato con quello fornito dal post: quello incriminato era il ddl n. 1052, una proposta risalente al 2013 che non aveva mai concluso l’iter legislativo – chissà perché. Il disegno di legge oggi in esame, invece, è il numero 2005. Il virgolettato riportato dal post non era, insomma, il Ddl Zan, ma ne stava minando l’immagine. Non voglio entrare nel merito della questione, sul perché solo otto anni fa ancora si paragonava l’omosessualità alla pedofilia, ignorando il fatto che la prima non è una perversione e la seconda non è un orientamento sessuale, con l’evidente scopo di screditare l’una e non certamente di tutelare l’altra. Ma tutta la questione intorno al riconoscimento dei diritti è così delicata e ancora così tristemente divisiva in Italia, che la diffusione di quella fake news, che poteva essere letta e ricondivisa da chiunque, era potenzialmente molto dannosa.
È per tutti questi motivi che ho deciso di commentare, spiegando che si trattava di un disguido, che il ddl in questione era un altro e allegando tutti i link ufficiali in modo che ognuno potesse controllare di persona. Ed è per questo motivo che il mio commento conteneva alcune ripetizioni, perché speravo che chiunque si imbattesse in quel post potesse percepire che fosse una fake news semplicemente scorrendo i commenti, anche senza leggerli attentamente. Invece, Fb mi ha considerata inopportuna.
Ora, abbiamo parlato molte volte delle policy di Facebook e di tutte le altre piattaforme che ospitano le opinioni di milioni di utenti. E tante volte abbiamo parlato di quanto sia pericoloso censurare e di quanto sia pericoloso non farlo, di quanto sia difficile costruire criteri il più neutrali possibile e di quanto sia importante il ruolo delle piattaforme, oggi, che non devono farsi veicolo di hate speech e dichiarazioni pericolose ma non devono neanche emulare la censura dittatoriale a suon di contenuti oscurati. Altrettante volte, però, ci siamo resi conto di quanto le misure risultino parziali. Nel corso del tempo, le policy di Facebook, Instagram e Twitter si sono evolute e hanno tentato di rimediare alle mancanze ma, specialmente per quanto riguarda i social di Zuckerberg, non tutti i problemi sono stati risolti.
L’incitamento all’odio, per esempio, non è permesso, ma in passato contenuti satirici che volevano proprio criticare qualche politica discriminatoria sono stati scambiati per hate speech ed eliminati. Il dibattito tra chi crede che un’eccessiva cautela sia meglio di una parola d’odio in più e chi, invece, avverte sulla pericolosità della censura, difficilmente giungerà a una soluzione poiché si tratta di equilibri troppo delicati e di linee troppo sottili per essere identificate. Ma che Facebook e la sua policy spesso falliscano non è un mistero. Poco tempo fa, per esempio, criticavamo come Instagram oscurasse solo le immagini di nudo di corpi femminili non normali, lasciando invece visibili quelli che rispettano i canoni di bellezza imposti dalla società contemporanea. Anche i social, dunque, tra algoritmi, segnalazioni e addetti ai controlli, cedono ai vizi del presente, assecondando inevitabilmente dinamiche tossiche che generano discriminazioni. Non ha molto senso, in effetti, che l’incitamento all’odio non sia tollerato dalle piattaforme che poi, con le loro regole, finiscono per alimentarlo.
Eppure, nonostante tutti i problemi, quella alle fake news resta una battaglia veramente complicata da gestire. Da sempre, il social di Zuckerberg è accusato di essere un più o meno consapevole mezzo di distribuzione di notizie false o di notizie distorte che influenzano l’opinione pubblica, ma dall’inizio della pandemia queste tendenze sono diventate intollerabili. È per tale motivo che Facebook ha più volte modificato la propria policy e i propri algoritmi in merito alla diffusione di informazioni menzognere. La strategia, oggi, consta di tre tipologie di approcci differenti alle fake news. I contenuti che violano le linee guida vengono rimossi direttamente, ma secondo la piattaforma essa non ha il compito di valutare quando una notizia sia falsa. Il social, quindi, collabora con numerose organizzazioni di fact checker in tutto il mondo per valutare i contenuti falsi e oscurarli, ovvero ridurne la visibilità senza rimuoverli effettivamente. In più, Facebook si impegna a contribuire alla corretta informazione degli utenti, promuovendo fonti di informazioni valide.
Tutte queste strategie hanno sicuramente funzionato durante la pandemia, poiché a un certo punto, tra il dilagare di fake news riguardo ai vaccini e il proliferare di teorie complottiste sull’inesistenza del Covid-19, la piattaforma ha iniziato a prendere provvedimenti sempre più incisivi. Ma, evidentemente, queste strategie non valgono per tutti i temi soggetti alla disinformazione. Anzi, esse sono state pensate proprio per la pandemia, mentre fin troppo spesso argomenti di ordine sociale sono gestiti male, o per niente gestiti. E se l’attenzione giustamente dedicata alla disinformazione sui vaccini è tanto alta, o se le politiche relative ai post di spam sono così stringenti, non vale lo stesso per i diritti delle persone. Anzi, secondo la policy di Facebook, scrivere più volte all’interno dello stesso commento questo non è il ddl Zan è potenziale spam, ma diffamare una legge tanto importante per la salvaguardia dei diritti è permesso. E non so se si tratti di incoerenza o disattenzione, ma certamente questa strategia non sta funzionando.