Negli anni Trenta, Max Beckmann, pittore tedesco, dipinse Il ratto d’Europa in riferimento all’antico mito secondo il quale Zeus, mutatosi in un toro, aveva rapito Europa, figlia del re di Tiro, per possederla una volta raggiunte le coste cretesi.
Il pittore – che era stato testimone dell’avvento del nazifascismo – attraverso il quadro volle descriverci e lasciarci testimonianza di come il nostro continente fosse pervaso e in un certo senso nato da tale stupro. Il toro, infatti, non era altro che il fascismo.
Oggi, la bestia furiosa prende le vesti del capitalismo, perché è nel nome del mercato e delle finanze che l’Europa viene violentata. È importante tenere ben presente come questa sia la nostra principale minaccia, considerando che solo se si ha consapevolezza di che cosa ci stia insidiando, si può immaginare di debellarla. Tuttavia, fino a ora, siamo parsi insensibili, malati nella nostra incapacità di trovare una via di analisi e quindi di soluzione.
Noi, in qualità di comunità europea, abbiamo infatti un qualcosa di insano al petto, a sinistra, dove ci figuriamo palpiti la nostra essenza e la nostra umanità. Diciamolo chiaramente, esplicitiamolo: l’Europa è malata di cuore e non sa come reagire, non ha idea su come fare per sentirlo battere di nuovo. È algida, spenta, le sue pulsioni sono lente, per certi versi addirittura inesistenti, davanti ai drammi dei giovani, dei disoccupati, delle periferie, di chi fugge dalla guerra e cerca riparo. Se proviamo a mettere una mano a sinistra sul torace, stentiamo a sentire qualcosa di netto, di deciso, di concreto. Non c’è battito. È un virus il responsabile, uno strano agente patogeno che ha snaturato degli ideali, e con forza ha cambiato forma al cuore e lo ha spinto verso destra.
È tornata a insinuarsi, infatti, nelle nostre vene la perversione virale del capitalismo più bieco, e coloro i quali vestono i panni di chi dovrebbe guardarsene si sono prostrati al suo volere, come nel caso italiano, con i vari Jobs Act, le privatizzazioni selvagge, le trivelle e i tentativi di riforma sull’impianto democratico.
Lo stesso virus, come è noto, ha contagiato anche gli Stati Uniti, ed è emerso in maniera evidente nelle ultime presidenziali, con la Clinton a sedere su uno scranno – che tale non dovrebbe essere – dei democratici, mai stato così lontano dalle esigenze della working class. La previsione di Michael Moore sulla vittoria di Donald Trump ha avuto gioco facile, se si considera che questi aveva e ha un elettorato convinto, mentre Hillary non è riuscita a mascherare di essere, nei fatti, alquanto lontana dagli ideali della sinistra. Inevitabilmente, dunque, molti elettori di quell’area si sono astenuti, e tanti di coloro i quali hanno votato per lei, invece, lo hanno fatto storcendo il naso, semplicemente perché ritenuta il male minore rispetto al tycoon. Tuttavia, il risultato è stato quello di aver consegnato il Paese più potente al mondo nelle mani di un uomo che, dalle sue dichiarazioni, pare di avercela con tutti tranne che con i maschi bianchi eterosessuali. Sostanzialmente si tratta di un vecchio che si spaccia per nuovo, dove per vecchio si intende quell’incarnare una politica che continua a essere ancella servizievole di affaristi e guerrafondai. Ma, allora, cosa ha fatto precisamente la differenza? Come si sente dire spesso, Trump sembra sia riuscito a parlare meglio alla “pancia delle persone”, all’America profonda e scontenta. Fondamentalmente, lo stesso si è detto per la Brexit, per la quale si è sostenuto che le forze che hanno spinto per la fuoriuscita del Paese dall’Unione Europea siano state quelle maggiormente capaci di dialogare con il “Regno Unito profondo”.
Perché, allora, la sinistra, in quanto tale, non riesce più ad arrivare lì nel profondo, dove per definizione dovrebbe esprimere la sua natura? Una parte di essa – che presume di essere tale – si è imborghesita indossando camicie bianche nei salotti finanziari, non riuscendo minimamente a dialogare con la “pancia delle persone”, non nell’accezione nazionalpopulista di fomentare la rabbia e l’odio, quanto piuttosto nel senso di riportare al centro della sua agenda proprio gli interessi veri degli ultimi e delle classi sociali più bisognose. Questo vuoto rappresentativo è il primo responsabile della crescita esponenziale che in tutto il nostro continente stanno avendo le destre populiste e xenofobe, le quali si muovono a beneficio di quanti vogliono vedere sgretolato quel grande progetto che doveva – e dovrebbe – essere l’Unione Europea, se non avesse tradito la ragione della sua origine, spostando l’attenzione dai popoli alle finanze.
Eppure, a ben guardare, in questo contesto di generale appiattimento qualcosa si muove e inizia a battere, in maniera più o meno marcata a seconda dei paesi. In Francia, ad esempio, si è avuta la vittoria del radicale Hamon contro Valls, nelle primarie dei socialisti. Hamon, in qualità di ecologista, sostenitore della classe operaia e favorevole all’introduzione di un “reddito di dignità”, potrebbe essere una valida opportunità, non tanto per scongiurare la deriva lepenista, quanto piuttosto per iniziare a costruire qualcosa che vada anche oltre i confini francesi. In cambio, in Spagna c’è Podemos, che dopo aver conquistato la due principali città, Madrid e Barcellona, ha avuto una battuta d’arresto e ora cerca di ricostruirsi attorno a Pablo Iglesias e di proiettarsi su un piano europeo. In Austria è arrivata, negli scorsi mesi, la vittoria del verde Van Der Bellen contro l’estrema destra di Hofer, mentre nel Regno Unito rimane tesa la situazione in seno al partito dei Labour, guidato da Jeremy Corbyn, scosso, nel dibattito referendario sulla Brexit, dall’omicidio della deputata Joe Cox per mano di un militante dell’ultradestra.
Queste singole esperienze, però, possono avere una futuribilità solo ragionando di lavorare su un piano d’insieme, il quale coinvolga tutte le forze progressiste del continente. Non si devono lasciare, infatti, in balia delle forze stroncanti del liberismo, come è accaduto nel caso greco di Tsipras.
E in Italia come si delinea il fronte della sinistra? Tralasciando chi scioccamente ancora ritiene di poter trovare una sponda nel Movimento 5 stelle – dato che le ultime esternazioni di Beppe Grillo hanno ormai sciolto qualsiasi dubbio su determinate posizioni – si ragiona, ormai da settimane, sul dopo referendum costituzionale e sulle macerie lasciate dal governo di Renzi, le cui politiche sono state quasi totalmente smantellate, sia dai cittadini che dalla Consulta.
In questi giorni, inoltre, c’è stata la direzione del Partito Democratico, nella quale si è delineata – tra i pareri contrastanti di chi chiede il sostegno indiscusso fino alla fine della legislatura al governo Gentiloni, e di chi prevede una inevitabile frattura, come D’Alema e Cuperlo – la volontà di un congresso, in modo da avviare il processo per la votazione delle primarie alla segreteria del partito, per le quali si sono presentate, in alternativa a Renzi, le candidature di Michele Emiliano, governatore della Puglia, Emilio Rossi, governatore della Toscana e Roberto Speranza, i quali hanno, peraltro, accusato il fiorentino di voler procedere con un “congresso rapido” in modo da inibire gli altri candidati e avere la vittoria assicurata. Come sostenuto da Emiliano, la volontà è quella di riportare il Pd alla sua vera essenza, snaturata in questi mille giorni di renzismo, ma il problema è che sarà difficile pensare di poter tornare a chiedere la fiducia nei confronti di un contenitore che ha prodotto solo disastri, tradendo il senso della sinistra.
In questa ottica è difficile concedere credito anche a quanti vogliono creare partiti alla sinistra del Pd, che altro non sono che le solite stampelle, molto spesso utili per meri tornaconti elettorali. Proprio questo è stato motivo di dissidio, con conseguente scissione, all’interno della giovanissima Sinistra Italiana, ex Sel, tra il capogruppo alla Camera Arturo Scotto, il quale si è dimostrato aperto e disponibile a confluire in Campo Progressista – movimento nascente dell’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia e dunque molto ben disposto all’alleanza con il Pd – e Nicola Fratoianni, che, invece, anche partecipando all’incontro in Spagna con Podemos, ha rivelato la volontà di porsi in maniera totalmente alternativa. Ci sono, poi, Giuseppe Civati con la sua Possibile e le sue idee molto più che meritevoli – se solo riuscissero a rompere il confinamento nello zero virgola qualcosa – e Paolo Ferrero con gli intramontabili sostenitori di Rifondazione Comunista.
C’è da dire, però, che nel frattempo sia Civati che Ferrero hanno pubblicamente apprezzato quello che pare essere, in effetti, il progetto più interessante e destinato a smuovere le cose. Parliamo, del Movimento DemA – Democrazia e Autonomia – di Luigi de Magistris. Partire da Napoli, che si è rivelata un ottimo laboratorio per il dialogo con le associazioni e i movimenti sul territorio, per mettere il “bene comune” al centro dell’agenda programmatica di una forza che ambisce a essere di governo, è sicuramente una chiave di volta notevole. Ricominciare dal Sud, dalla parte più martoriata del Paese, dalle periferie e dal disagio sociale può essere una base fondante di rilievo e, inoltre, in una logica di collaborazione di caratura mediterranea – non a caso la zona dell’Europa maggiormente colpita dagli effetti della crisi – de Magistris, ha ricevuto gli endorsement del sindaco di Barcellona, Ada Colau, e del greco Yanis Varoufakis.
Di sicuro, non bisogna perdere di vista che, come insegnato dalla vicenda americana e dalla stessa vicenda referendaria italiana, la sinistra che fa la destra crea un ibrido strisciante tra l’ipocrisia e gli interessi borghesi – con tanto di attacchi al parlamentarismo – destinato inevitabilmente a perdere. L’unica sinistra possibile è quella vera, radicale, che non pensa a scissioni e sterili conflitti interni, piuttosto esprime il desiderio di approdare a un lavoro di squadra, di spettro transnazionale, capace di scardinare quelle logiche del mercato che, secondo alcuni, dovrebbero funzionare andando dall’alto verso il basso, ma che ovviamente si fermano all’alto lasciando per chi sta sotto solamente le briciole.