Vox populi, vox dei e il popolo finalmente ha parlato: 1.4 milioni di firme sono state raccolte per dire basta alle gabbie da allevamento. Risultato dell’Iniziativa dei Cittadini Europei (ICE), si chiama End the Cage Age ed è la petizione lanciata a settembre 2018 da Compassion in World Farming e 170 altre organizzazioni, di cui 21 italiane.
L’Europa ha così fatto un altro nodo al fazzoletto, impegnandosi a liberare oltre 300 milioni di animali dalle gabbie ogni anno attraverso un processo di riduzione graduale, fino all’eliminazione totale entro il 2027. L’obiettivo di ridurre quanto più possibile la sofferenza non riguarda solo gli animali d’Europa. Coerente con la propria meta, infatti, la proposta di legge da presentare entro la fine del 2023 valuterà anche parametri di importazione sui prodotti che arrivano nel continente.
Il progetto rientra nel grande dibattito ecologico ed etico sul consumo di carne, pesce e derivati. Ma in cosa consiste l’idea di creare allevamenti sostenibili? Si tratta di strutture in cui si cerca di garantire uno stile di vita sano e dignitoso, rispettando l’ambiente. Ma è un sogno davvero possibile?
Attualmente, gli allevamenti di animali sono la prima causa di emissione di gas serra in Europa, vincendo sugli altri inquinanti con una percentuale del 61%. Il problema è quanto più sentito in Italia, dove la sola Lombardia è responsabile di oltre un quarto dell’impatto nazionale. Insostenibile. Come segnalato da Greenpeace, infatti, la regione avrebbe bisogno di una superficie agricola di quasi una volta e mezzo quella attuale per compensare le sole emissioni dirette degli animali allevati sul suo territorio. Situazione, questa, che affligge l’intero Bacino Padano.
Un’azione decisiva in materia di allevamenti si configurerebbe necessaria per raggiungere un altro obiettivo dell’UE: la neutralità climatica entro il 2050. Ma mangiare carne, pesce e derivati non pesa solo sul bilancio ecologico.
Abbiamo visto l’orrore del consumismo della vita trasformata in merce raccontato dall’abile penna di Deb Olin Unferth, nel suo Capannone n.8. Qui, la scrittrice descrive le condizioni delle galline ovaiole negli allevamenti, dandoci un doloroso assaggio di una situazione che riguarda – e mette in pericolo – tutto il mondo. Per questo, il proposito di eliminare le gabbie non può che essere il primo passo.
Sul web, spopolano le immagini di animali stipati gli uni sugli altri, costretti a calpestare i cadaveri dei propri simili, respirando col fiato corto circondati da escrementi. In tali condizioni, non è raro assistere alla comparsa di tumori e gravi patologie. Ambienti simili sono l’humus perfetto per lo sviluppo di virus, batteri e pandemie.
L’istinto di skippare quanto prima al post successivo testimonia una spontanea avversione verso una violenza riconosciuta e accettata, finché si consuma lontano dai nostri occhi. Il passaggio dal macello al piatto è mediato e nascosto. Questo riduce la sensibilità verso il benessere animale, concentrandosi invece sul “prodotto” finale. Eppure, essere onnivori non vuol dire essere sadici. Spesso, semplicemente ci si dimentica – o si sceglie di ignorare – il processo che vi è dietro. Ma se il consumatore potesse scegliere cosa mangiare, avendo davanti non una succulenta bistecca ma la foto dell’animale in vita, sceglierebbe una mucca in salute o una consumata da sofferenza e infezioni?
Le pubblicità di hamburger, latte e uova, mostrano sempre esemplari sani e liberi di pascolare su prati verdi. Se l’idillio della vita in libertà fosse reale, gli allevatori non avrebbero bisogno, ad esempio, di imbottire i propri animali di integratori per assicurare il giusto apporto di vitamina B12. Sì, perché la B12, essenziale per l’uomo e alla base delle giustificazioni di molti sul consumo di carne, è prodotta da microorganismi presenti nel terreno con cui gli animali da pascolo entrano in contatto. Appunto, da pascolo…
Ma anche con una buona sensibilizzazione e per quanto certe scene inorridiscano, sarebbe inverosimile immaginare che, domani, tutto il mondo si risveglierà improvvisamente vegano. Ancora una volta, vox populi, vox dei e il mercato risponde alla richiesta. Così, piuttosto che arrivare all’arresto, si prova a ripensare il modello di allevamento.
A Napoli, una nuova facoltà dell’area Medicina Veterinaria prova a incamminarsi in questa direzione: chi studia Tecnologie delle Produzioni Animali sa che, finché ci sarà domanda, qualcun altro dovrà offrire. Ma il dramma degli animali-cibo si consuma in circostanze inaccettabili per ogni società davvero civile. L’obiettivo, oggi, è portare l’offerta sempre di più lontana dagli orrori di cui siamo ormai abituali complici.
Incapaci di sopportare l’irrazionalità di un sistema che non funziona, si tenta di tracciare nuove strade di cambiamento. Tra queste, rientrano anche i nuovi studi sulla carne sintetica e sullo sviluppo di proteine vegetali coltivate a partire dall’aria. Esempi di soluzioni che si affacciano coraggiose, mosse dalla consapevolezza che risolvere non vuol dire guardare in una sola direzione, ma abbracciare più strategie in diversi ambiti.
Come ha compreso bene chi tenta con zelo di sviluppare un’economia circolare – e quindi più sostenibile – non possiamo infatti più pensare al mondo come diviso al suo interno in compartimenti. Uomini e animali fanno parte di un unico grande ciclo: la vita non si rinnova seguendo una linea, ma tracciando un cerchio. In questo cerchio, sono racchiuse la politica e le singole scelte dei cittadini, le conseguenze del passato, il lavoro del presente e ogni possibilità di futuro.