Ricordate il vostro primo giorno di scuola media? Io sì, e ricordo perfettamente il mio outfit. Lo avevo studiato con precisione, dallo smalto viola alle forcine colorate nei capelli. Sapevo che, in base al primo impatto, mi sarei posizionata in cima o in fondo alla piramide sociale.
Alle medie non conoscevo nessuno: da un lato era elettrizzante perché avevo carta bianca per ricostruire la mia identità da zero; dall’altro lato, avevo una paura terribile di finire nella categoria sbagliata, quella delle sfigate. Così, adottai una strategia: presi tutti i miei giornaletti patinati – da Cioè alle W.I.T.C.H. – e un paio di forbici. Cominciai a ritagliare i capelli di Brenda Asnicar, le converse di Avril Lavigne, i jeans delle Bratz o i top di Britney e incollai il tutto su una mia foto.
Avevo creato un mostro di Frankenstein adolescente fatto con i pezzi delle icone culturali della mia generazione. Trascinai mia madre per tutta la città alla ricerca dei capi che avevo selezionato e alla fine mi provai l’ensemble: notevole, per una bambina.
Entrai in classe sicura di me, ma dopo qualche ora il mio piano si rivelò fallace. Perché? Non ero in grado di recitare la parte che il mio costume di scena suggeriva. Ero troppo maschiaccia, troppo insicura, troppo me: non conoscevo i codici e gli atteggiamenti giusti.
Secondo il sociologo Erving Goffman – autore di The Presentation of Self in Everyday Life – l’identità è un costrutto artificiale meticolosamente studiato e messo in scena, una performance in cui dobbiamo essere sempre credibili e riconoscibili.
Per evitare l’imbarazzo sociale, tutti noi (chi con più successo, chi con meno) creiamo un personaggio scudo. Assorbiamo i commenti dei nostri genitori quando i loro amici se ne vanno, le risatine dei nostri compagni di classe, e costruiamo la nostra identità di conseguenza. Ci comportiamo come se fossimo sempre su un palcoscenico: impariamo ciò che piace al pubblico e – coscientemente o no – lo mettiamo in scena. Questa è la teoria di Goffman: tutte le interazioni sociali sono teatrali.
L’individuo è sia attore (un affaticato fabbricante d’impressioni, immerso nel fin troppo umano compito di mettere in scena una rappresentazione) sia personaggio (una figura per definizione dotata di carattere positivo, il cui spirito, forza e altre qualità eccezionali debbono essere evocati dalla rappresentazione). Ma, dopo un po’, sappiamo dire ciò che siamo davvero e ciò che fingiamo di essere? Anche quando crediamo di essere autentici, sinceri e spontanei, secondo Goffman stiamo performando ciò che abbiamo assorbito negli anni.
Ma cosa succede quando la performance smette di essere esclusivamente a favore di parenti e compagni di classe e di colpo diventa virale? Jia Tolentino, nel libro The I in the Internet, afferma che la “presentazione del sé” sui social corrisponde ancora alla metafora di Goffman sul teatro: c’è un palco, e c’è un pubblico. Ma internet aggiunge altre inquietanti strutture metaforiche: lo specchio, l’eco, il panopticon.
Sui social media, gli utenti definiscono loro stessi attraverso un’accurata selezione di cose che consumano o che vorrebbero consumare. Le storie con il calice di vino a una serata in non servono a immortalare il momento, ma a urlare: io sono questo tipo di persona. E questo vale per chiunque, anche per gli intellettuali che postano foto di romanzi sottolineati (guardatemi, questo libro/citazione sono proprio io!) o per gli hippie che fotografano spiagge dorate dal finestrino del proprio minivan. Ne parla Emily Longley nel saggio Like Me: Generation Z, Instagram, and Self-Branding Practices:
Il personal branding è diventato particolarmente popolare su Instagram, dove gli individui sono incoraggiati sia a consumare che produrre narrazioni biografiche uniche attraverso le immagini. Esattamente come i brand si affidano a immagini e simboli per comunicare un’identità mirata all’acquisto, così agisce anche l’utente Instagram.
C’è una parola chiave oltre a personal branding: unicità. Non basta più essere simile a tutti gli altri, anzi, sui social è importante differenziarsi (ma in maniera organizzata). Su Instagram e TikTok tutto ruota attorno all’inserirsi in una sottocultura di nicchia e performarla in modo corretto.
Si chiamano estetiche o cores: c’è il cottagecore, ovvero il vestirsi come belle campagnole, il barbiecore, tutto rosa e fiocchetti, il ritorno a decadi passate – 90s Whimsigoth, Y2K o 70s Disco Glam – e perfino la goblin mode. Sono un po’ come le nostre vecchie etichette (emo, truzzi, goth e punk) ma moltiplicate all’infinito.
I vari cores implicano delle identità ben precise: se ti piacciono pizzi e merletti, allora sei una coquette, quindi una tipa civettuola e dolce; se invece indossi maglioncini a collo alto o gonne di plaid, ti vesti in stile dark academia, quindi sarai di sicuro una persona colta e misteriosa.
Proprio come la me ragazzina che credeva di aver trovato la formula del successo grazie a dei ritagli e un po’ di colla vinilica, così su Instagram e TikTok si vive di identità precostituite. Come riassume Rayne Fisher-Quann, le estetiche legate al consumo sono diventate un modo di rendere l’identità più facilmente consumabile.
Inoltre, la tua esistenza come “Tipo di Ragazza” – continua Rayne Fisher-Quann – non ha nulla a che fare col fatto che tu legga davvero Joan Didion o vesta Miu Miu, ma col fatto che tu voglia essere vista come il tipo di persona che lo farebbe.
Le sottoculture un tempo nascevano per passione, si vivevano, mentre le estetiche si performano soltanto. Non sono altro che marchi, brand e, di conseguenza, gabbie in cui rinchiudere il sé. Professionalizzando le nostre identità, l’imperativo nietzschiano diventa ciò che sei si trasforma in non puoi essere altro che ciò che fingi di essere.
Però, le cose non devono essere così distopiche. La moda, dopotutto, è un gioco, nient’altro che un ballo in maschera: le cose precipitano quando si smette di giocare. L’espressione della propria identità potrebbe essere liberatoria e divertente, se solo smettessimo di usarla per ottenere uno status sociale.