Un uomo cammina per i fori romani sotto il peso di una croce di legno poggiatagli su di una spalla. Dietro di lui una torma di gente lo segue in silenzio. Non è Gesù, per quanto la scena lo ricordi. Lo si riconosce, è Aldo Moro e quelle persone che gli vanno dietro, come se seguissero un carro funebre, sono i maggiori esponenti delle Democrazia Cristiana degli anni Settanta.
È questo uno degli spunti presenti nel nuovo film di Marco Bellocchio, in selezione ufficiale a Cannes 75, che ripercorre le vicende del rapimento Moro in modo esaltante e imponente, tragico e affascinante. Inizialmente, la pellicola era stata pensata per essere una serie TV da quasi sei ore di durata e divisa in altrettanti episodi. Invece, è stata presentata in sala in due tranche da tre ore ciascuna: la prima, già al cinema, e l’altra che sarà visibile a partire dal 9 giugno.
Roma, 28 febbraio 1978. Aldo Moro tiene un discorso in un’aula universitaria dinanzi ai parlamentari DC durante il quale sostiene la necessità di aprire le porte del governo al PCI. Da qui si dirama la trama della pellicola che rivive i giorni precedenti e i giorni successivi alla strage di via Fani, avvenuta due settimane dopo il discorso e nella stessa giornata della votazione sulla fiducia al governo Andreotti.
La narrazione segue uno schema proprio che suddivide la lunghezza del film in tre periodi (primi tre episodi della serie): il primo si concentra sulle giornate di Aldo Moro antecedenti il rapimento, il secondo sulla reazione e sul ruolo svolto dall’allora Ministro dell’Interno Cossiga durante le fasi del rapimento e il terzo sull’impegno di Papa Paolo VI e del Vaticano per il salvataggio di Moro. Sono ripresi, quindi, i punti di vista dei protagonisti di quel momento oscuro della storia italiana e viene tratteggiato il contesto, alle volte ironicamente comico e alle volte estremamente drammatico, nel quale questi operano.
Aldo Moro (Fabrizio Gifuni) è rappresentato come un uomo passionale, aperto, intelligente e generoso. È un nonno, un padre e un marito attento e umile che tiene la scena con un forte carica drammatica. Bellocchio ne santifica la figura e la persona, paragonandolo non solo a Gesù, ma anche al Carlo Levi di Cristo si è fermato a Eboli. Ci racconta la sua vita e la dolcezza dei rapporti con la sua famiglia e quelli di infinita umanità con gli uomini della sua scorta. È l’unico uomo di quella classe politica a portare con sé la modernità del cambiamento pur mantenendo saldi i valori del suo stesso partito. Questa prima parte termina con le immagini a tratti strazianti della strage di via Fani.
È impressionante la somiglianza di Fabrizio Gifuni con i reali tratti di Aldo Moro, quasi quanto la sua interpretazione incredibilmente sentita. Di Cossiga (Fausto Russo Alesi), protagonista del secondo “episodio”, traspare la costante lotta intima che lo conduce contro se stesso, la sua acuta sensibilità e fragilità, ma anche l’influenza americana e le dinamiche particolari e tristi del suo matrimonio. Cossiga è il figlioccio politico di Moro e suo caro amico, ma di continuo viene spinto da forze esterne ad azioni ipocrite e di convenienza che ne svelano il lato buio: una su tutte quella che vede il Ministro dell’Interno concedere delle perizie psichiatriche ai giornali italiani riguardo un presunto stato di pazzia nel quale verserebbe il segretario DC prigioniero dei brigatisti, in modo da giustificare il contenuto delle lettere da lui scritte a varie cariche pubbliche e rese note a loro volta dai membri delle BR.
Sullo sfondo, dopo il rapimento, si muovono però anche altri poteri che cercano in qualche modo di scavalcare l’atroce linea della fermezza decisa da Andreotti e dall’esercito. I tentativi di mediazione sono organizzati da Papa Paolo VI (Toni Servillo), protagonista del terzo episodio. In questo caso Bellocchio probabilmente manca di una visione critica rispetto a questa categoria di personaggi e a ciò che avviene, sia per il suo eccessivo rispetto della carica sia per la scelta dell’attore selezionato per interpretare il Papa. Servillo è certamente un grande nome e di sicuro uno dei migliori attori italiani dell’ultimo decennio, eppure in un ruolo come questo il suo potenziale viene contratto, forse anche per la debolezza del personaggio cinematografico. Sono, in ogni caso, toccanti le immagini di estrema fragilità di un Papa anziano che appare come il barlume che si oppone al freddo materialismo morale delle BR e di parte della politica italiana.
Tutto si svolge nella Roma emotiva e divisa degli anni Settanta e il fascino di questa pellicola sta proprio nella magistrale ricostruzione di uffici, strade, abbigliamenti, pensieri dell’epoca. È un reperto storico oltre che artistico di grande fattura. Importante in un momento, come quello attuale, nel quale la memoria storica politica italiana ha sempre di più un peso minore. Le riprese dell’interno dei palazzi ministeriali sono fascinose e brillanti e come mai ci permettono di entrare in un mondo da sempre sconosciuto ai cittadini.
La regia di Bellocchio è pulita ed esperta, ma allo stesso tempo ricca di esperimenti moderni. Bellocchio ha già dimostrato più volte (con Il traditore, 2019, o con Buongiorno, notte, 2003) che il suo cinema in questo periodo vive di interesse e ammirazione per la storia del nostro Paese. Latente per tutta la pellicola è il grande rispetto che il regista ha per le Istituzioni e per la bandiera italiana in quanto tale. Forte e sprezzante, invece, è la critica all’azione anarchica e impietosa delle Brigate Rosse, come la critica all’influenza americana su una classe politica che in quegli anni non riuscì a staccarsene.
È evidente che si tratti della prima parte di una pellicola altamente interessante e dal valore potenzialmente inestimabile. La conclusione della vicenda, tuttavia, è ancora lontana e manca la prospettiva di altri soggetti protagonisti del periodo storico affrontato, come quella dell’allora Primo Ministro italiano, Giulio Andreotti, appena introdotto. Non c’è, dunque, che aspettare con ansia che la seconda parte esca nelle sale.
Contributo a cura di Ignazio Cimino