Senza casa. Quante volte ci siamo sentiti così. Spaesati, senza un luogo in cui stare o restare troppo a lungo, inadatti. Persino rifiutati. È la condizione delle generazioni diventate adulte nel nuovo millennio, quando il mondo è rovinosamente mutato portandosi via tutte quelle certezze alle quali ci avevano abituato: casa, lavoro, famiglia. Crollate. Una dietro l’altra. Uno spaesamento che ha fatto dire a Giorgio Agamben che «quella dei rifugiati è forse l’unica forma di popolo pensabile del nostro tempo» e che Gianluca Didino ci ripropone inesorabile – fin troppo – nel suo ultimo libro edito minimum fax.
È la società odierna, infatti, il centro di Essere senza casa, un volume prezioso e puntuale che sembra riassumere al meglio la condizione di vivere in tempi strani, non a caso il sottotitolo del testo. Tempi che dall’11 settembre 2001 a oggi, che pandemia è parola di uso comune, hanno cambiato abitudini e percezioni, il presente, certo, ma anche il futuro. O, almeno, di quello che ne resta ora che la nostra casa è in fiamme. Ora che l’esperienza dell’assenza di casa, intesa come luogo stabile in cui mettere le radici, accomuna gran parte della mia generazione.
Didino articola il proprio discorso riprendendo alcuni dei concetti fondamentali dell’opera di Mark Fisher, eerie e weird, due concetti difficili da tradurre in italiano eppure così radicati nelle nostre vite da condizionarne pienamente il flusso. E lo fa alternando riflessione filosofica e sociale a vissuto quotidiano, il suo, quello di uno dei troppi expat che hanno lasciato il nostro Paese rifugiandosi nell’accento britannico. Un dettaglio di non poco conto. Londra, la città dalla quale scrive, la stessa della Grenfell Tower, si rivela infatti metafora perfetta di quell’incubo collettivo nel quale viviamo, quello in cui l’attentato ai grattacieli statunitensi ci ha catapultato dando ufficialmente il via all’ipermodernità, un’epoca in cui il mondo Reale ha fatto irruzione nelle mura di casa, e l’Esterno ha invaso l’intimità domestica.
Il crollo delle Torri Gemelle prima e l’interminabile notte al Bataclan poi – per citare due dei momenti più significativi degli ultimi vent’anni – hanno infatti completamente alterato la nostra percezione di sicurezza, finendo con l’abbattere la barriera di protezione che credevamo ci separasse dal pericolo che abita il mondo. L’unheimliche di freudiana memoria – lo strano all’interno del familiare – è diventato sempre più weird, apportando a quel familiare qualcosa che normalmente si trova al di fuori di esso. In altre parole, ciò che prima ci appariva come minaccia esterna, qualcosa che non avrebbe mai potuto mettere in discussione la nostra stabilità tra le quattro mura, ha sfondato la porta spazzando via tutto. Ecco che, allora, fragili e provati come dopo un uragano – seppur non così improvviso – abbiamo dovuto fare i conti con ciò che ne è rimasto: nient’altro che macerie di perturbante.
A un passo dalla demondificazione di Heidegger, dunque, un nuovo concetto di soglia si è fatto spazio, alimentando quella guerra al terrore che ha dato linfa vitale ai sovranismi odierni, ai muri sempre più alti e numerosi, ai discorsi di odio, alla convinzione che il nemico si nasconda, non visto, dentro confini che appaiono inquietanti ma comunque la sola soluzione possibile. Si potrebbe spiegare così, ad esempio, la Brexit, quel processo di smantellamento dell’Europa nato come provocazione eppure oramai a pochi metri dal traguardo. Ciò su cui abbiamo sempre elaborato le nostre fantasie, in una sorta di esorcismo delle paure più recondite, si è fatto realtà. Nessuna zona comfort, nessuna consolazione: soltanto uno sguardo elegiaco a un passato mai realmente tale.
A questo proposito, Didino non fa mancare la sua critica alla retromania sempre più in voga nella nostra società. Intrappolati in una sorta di negozio nostalgia dove il tempo è eternamente presente, emuliamo il mondo che è stato come un feticcio, ne ripercorriamo le tappe distratti, dalla moda alla musica, privi di sguardo critico e di capacità innovativa, noi che, come Kiruna, la città svedese che stiamo spostando a poco a poco per far sì che sopravviva alla malaugurata opera umana, non abbiamo un posto in cui stare, un posto dove essere. Noi che siamo ormai spettri di un non-mondo che il lockdown ci ha mostrato in tutta la sua brutalità.
È proprio ai fantasmi che Didino dedica quello che è, forse, il più imperdibile dei capitoli: un’amara riflessione che racconta al meglio la frammentazione del qui e ora compromesso dall’avvento di internet e dei social media. «Quanti dei tuoi amici di Facebook sono morti? E gli altri, come fai a essere certo che siano davvero vivi?» chiede un amico all’autore, e quindi anche a noi, dopo essersi reso conto di aver interagito per anni con un account commemorativo a sua insaputa. Quanti dei nostri contatti sono molto più che semplici profili su una piattaforma online? Cosa ne sappiamo realmente?
Secondo alcune stime dell’Università di Oxford – racconta Didino – nei prossimi cinquant’anni il numero dei morti iscritti a Facebook potrebbe superare quello dei vivi. Il social network più popolare di tutti sta diventando un «cimitero digitale in crescita inarrestabile». E lo sta facendo illudendoci che la vita sia tutta lì, tra un post e una storia di appena pochi secondi. Fuori dalla rete – da intendere come trappola – la vita è niente. Ecco, allora, che tornano gli spettri: «Cosa ti danno, questi dispositivi? Ombre, voci senza corpo. Parole stampate e immagini […] Se pensi di essere circondato dalle persone te le stai inventando». E qui torna anche il concetto di casa.
Fantasmi e case, infatti, sono strettamente legati. Letteratura e cinema ce lo raccontano da sempre ed è proprio Mark Fisher a ricordare come «haunt significa in inglese sia luogo di residenza, scena domestica, sia ciò che la invade o disturba». Ma cosa succede se a disturbarla siamo noi, produttori e consumatori di un realismo capitalista che ci ammalia e logora al contempo? Noi che, utenti di Airbnb, abbiamo concesso agli altri di farsi spazio nella nostra intimità?
Succede che ci si perde, finendo con il «non sentirsi più a casa in questo mondo» […] perché questo mondo, denaturalizzato dalla scienza, fatto a pezzi dalle dinamiche del capitalismo globale, minacciato dall’apocalisse climatica o tecnologica, non è più veramente un mondo, un’unità dotata di senso e relativamente stabile nella quale possiamo vivere e costruire un futuro. Che cosa fare, dunque? Sembra non esserci speranza. O, forse, sì. Ed è lo stesso Gianluca Didino a indicarci la via: la weirdness dei nostri tempi, per non fomentare la xenofobia delle destre populiste, deve fornire la spinta per una aperta xenofilia, un amore per l’ibrido e il multiforme, per ciò che non può essere capito e assimilato facilmente e per ciò che vive sulle soglie tra mondi. Lì, dove abita Essere senza casa, un libro capace di raccontare il suo tempo come pochi. Ancora una volta, minimum fax non sbaglia un colpo.
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