In Italia sono circa 5,6 milioni le persone che l’ISTAT dichiara in povertà assoluta, che non riescono, dunque, ad avere accesso a beni e servizi essenziali. Altre 15 milioni sono a rischio esclusione sociale. Ma cosa vuol dire essere poveri? Qual è il confine oltre il quale una vita smette di sentirsi tale?
Essere poveri non vuol dire soltanto dover rinunciare alla spesa, alle bollette, spesso persino all’affitto di un tetto sotto cui ripararsi la notte. Essere poveri, il più delle volte, coincide con la vergogna e la gogna sociale. Anziché chiedere aiuto, tanti indigenti scelgono di eliminare almeno un pasto dalla propria alimentazione quotidiana, altri commettono delle imprudenze a cui, prima di ritrovarsi senza alcuna prospettiva di vita, non avevano mai pensato, altri – talvolta contestualmente – sprofondano nella depressione.
L’ansia da prestazione, che la pandemia ha contribuito a estremizzare attraverso una sempre crescente istigazione alla performance, coincide – sempre più – con il valore che la società occidentale e capitalista attribuisce a un individuo, degno di sentirsi tale soltanto in base al risultato della sua produttività e dei propri guadagni. Le aspettative tossiche – anche legate al mondo della scuola, come le recenti cronache stanno a sottolineare – pongono il merito (parola cara al governo Meloni) come una sfida al rendimento economico.
Sempre secondo l’Istituto Nazionale di Statistica, attraverso il rapporto Mercato del lavoro, redditi e misure di sostegno dell’8 marzo scorso, nel biennio pandemico (2020-2021) l’argine alla tragedia sociale è stato retto dalla misura introdotta dall’esecutivo guidato dal Premier Giuseppe Conte, il reddito di cittadinanza. Per l’ISTAT, circa un milione di persone ha evitato la povertà assoluta proprio grazie al sostegno che lo Stato garantiva a chi era senza lavoro e non era in grado di procurarselo, a maggior ragione con le normative stringerti che scoraggiavano gli spostamenti.
Il 74% delle famiglie che usufruiva, a quei tempi, del reddito apparteneva allo strato più povero della popolazione. Il Rdc attenuava, dunque, quel dramma sociale che con la pandemia colpiva proprio attraverso disagi di natura psichica e mentale, anche nelle fasce più agiate. A partire dal prossimo settembre, però, la misura cambierà volto in via definitiva e nel 2024 lascerà il posto a Mia, Misura Inclusione Attiva, anche se non è ancora ben chiaro come funzionerà.
Mia, innanzitutto, separa le persone occupabili da quelle che non lo sono, basando la propria statistica soltanto su deficit di carattere fisico e motorio. Dunque, chi soffre di quei disagi legati alla salute mentale a cosa potrà appellarsi? Qual è il confine che definirà chi risulterà effettivamente occupabile e chi no?
Il dramma – e la farsa della misura – assume toni grotteschi se si pensa che, nonostante l’accesso al PNRR, le politiche attive del lavoro non sembrano beneficiare di nuovi sviluppi, come quello per cui sarebbe il caso di considerare che tante persone percepiscono salari troppo bassi per vivere dignitosamente, ossia milioni di lavoratrici e lavoratori che – nonostante un impiego che li escluderà da ogni forma di sostegno – non saranno in grado di arrivare alla fine del mese.
I non occupabili percepiranno 375 euro mensili, che sono praticamente niente, che non hanno davvero alcun senso se relazionati al costo della vita nella stragrande maggioranza delle città italiane, dove un litro di latte costa circa 2 euro. Un affitto medio in Italia sfonda i 500 al mese.
Un altro aspetto drammatico che, inevitabilmente, si somma a quanto appena descritto è la rinuncia alle cure. Con un sistema sanitario in affanno e i privati inaccessibili per i costi delle prestazioni, di fatto, l’Italia sta trasformando lentamente la propria società sul modello di quella americana, anche se non dichiaratamente. A farne le spese, com’è facile immaginare, sono i poveri, sì, ma – ancor più – i poveri anziani. L’Italia è sempre più vecchia, motivo per cui aumentano anche le persone non autosufficienti, mentre i centri specializzati e le RSA statali non coprono neppure il 25% della richiesta nazionale.
Tornando a disturbare l’ISTAT, si scopre che poco meno del 50% dei posti letto per i nonni italiani è in mano a enti quali cooperative, fondazioni, enti religiosi, il 27% ad aziende private e solo il 23% è diretto da strutture pubbliche. I gestori privati sono per la maggior parte accreditati per l’erogazione di prestazioni essenziali del servizio sanitario nazionale – si legge in un recente articolo de L’Essenziale – che tradotto vuol significare che la metà della retta giornaliera di una RSA è corrisposta dai pazienti e dai familiari per una spesa che, sì, varia di regione in regione e in base al grado di non autosufficienza del paziente, ma che raggiunge la spaventosa cifra di 110 euro al giorno di media, ossia tra i 1500 e i 2000 euro al mese a carico delle famiglie.
Se a chi tocca prendersi cura di queste persone coincide un lavoro sottopagato, o pagato male – in Italia lo stipendio medio è di 1600 euro al mese –, qual è l’epilogo a cui gli anziani sono condannati? Rinuncia a un pasto, alle cure, stigma sociale, depressione sono tutte componenti che si innescano, inevitabilmente, anche nelle famiglie che, tra mille difficoltà, tentano di sbarcare il lunario. Ma è davvero possibile?