Sahar Khodayari era per tutti la ragazza blu. La chiamavano così per il colore della sua squadra del cuore, l’Esteghlal, società che milita nella Persian Gulf Pro League, la serie A iraniana. Il calcio, per lei, era passione e rivoluzione, una risposta coraggiosa alla folle misoginia di quella che un tempo si chiamava Persia e oggi è la Repubblica Islamica dell’Iran, una terra dove le donne chiedono il permesso persino per respirare.
È morta, Sahar, a nemmeno trent’anni, tramutatasi in una torcia umana in seguito alla condanna a sei mesi di reclusione, rea di essersi recata allo stadio Azadi di Teheran riuscendo a eludere la sicurezza e a supportare i propri colori travestita da uomo, l’unico modo, per una tifosa persiana, di seguire una partita dal vivo. L’unico modo, per una tifosa persiana, di sentirsi una persona normale, forse un sogno ancora troppo grande per chi vive nell’Iran del 2019. Nella Repubblica Islamica, infatti, per le donne vige il divieto assoluto di assistere a qualsiasi tipo di evento sportivo al fine di proteggerle dalla natura violenta di talune manifestazioni e di non vedere gli atleti in pantaloncini. Un divieto che, però, sta sempre più stretto non solo alle destinatarie della normativa ma anche a molti uomini che ne denunciano la disparità.
E, così, sono ormai in tante coloro che raggirano la legge e si affidano a parrucche e barbe finte pur di assecondare le proprie passioni e quel desiderio – legittimo – di libertà. Lo stesso desiderio che ha trasformato Khodayari in una criminale o, mesi fa, Ghoncheh Ghavami, 25enne tenuta in isolamento, senza nemmeno la possibilità di contattare un avvocato, per aver tentato di presenziare al match di pallavolo maschile della World League Italia-Iran. Entrambe, infatti, hanno osato sfidare un sistema fallocentrico che, nel primo caso, ha addirittura portato alla morte una giovane che ha preferito darsi fuoco piuttosto che finire in carcere.
L’assurda vicenda che, come denunciato dalla famiglia di Sahar, le autorità avrebbero voluto mettere a tacere per ragioni di sicurezza nazionale, riferisce Iranwire, sarebbe avvenuta non il 9 settembre, come raccontato dai media ufficiali, ma tre giorni prima, mentre nel Paese era in corso la commemorazione dell’eccidio dell’Imam Husayn, considerato un evento epocale nella storia dell’Islam. Anche se in ritardo, però, non è stato possibile evitare che l’omicidio – perché di questo si tratta realmente – scuotesse l’opinione pubblica e riportasse al centro del dibattito i diritti negati alle donne iraniane, soprattutto in ambito sportivo dove sembrava che qualche passo avanti fosse plausibile dopo che nei mesi scorsi, in particolare su pressioni esercitate dalla FIFA, richiamata in causa proprio in questi giorni, il divieto si era allentato.
Basti pensare che nel giugno 2018, per la prima volta dalla Rivoluzione Islamica del 1979, alle tifose era stato concesso di accedere allo stadio di Teheran in occasione della partita Iran-Spagna trasmessa su un maxischermo. Un momento di giubilo per l’intero Paese che aveva fatto sperare nel preludio per l’abolizione totale dell’aberrante disparità. Allo stato attuale, però, le discusse regole restano ancora in vigore, come denunciato da Masih Alinejad, giornalista e fondatrice del movimento My Stealthy Freedom – vincitrice nel 2015 del Premio Women’s Rights Award, per aver dato voce a chi non ce l’ha, stimolando la coscienza degli esseri umani a sostenere la lotta delle donne iraniane per i diritti fondamentali, la libertà e l’uguaglianza –, che ha definito quello di Sahar come un gesto di disobbedienza civile.
Proprio alla Federazione Internazionale di Calcio e alla Confederazione asiatica, per anni, hanno scritto i sostenitori dei diritti delle donne di OpenStadiums e di #NoBanForWomen al fine di richiedere un intervento che rispettasse i propri principi. Una richiesta avvalorata anche da diciotto note attiviste iraniane, tra cui Shirin Ebadi, Premio Nobel, che si sono appellate, in una lettera aperta, all’articolo 4 del regolamento FIFA secondo il quale ogni forma di discriminazione è severamente vietata e punibile con la sospensione o l’espulsione. Lo stesso Gianni Infantino, Presidente dell’organizzazione, ha chiesto all’Iran rassicurazioni in merito all’ammissione delle donne alle gare per le qualificazioni della Coppa del Mondo del 2022, una manifestazione che già oggi fa ampiamente discutere.
I prossimi Mondiali – la cui assegnazione è al centro di inchieste giudiziarie e scandali dovuti a corruzione sportiva – si terranno, infatti, in Qatar, Paese vittima di un recente embargo voluto da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto che si propone, stando alle parole di Khalid Al-Naama, portavoce del Comitato Organizzatore, di farsi esempio positivo nel mondo arabo: «Il Qatar crede in diritti uguali, da noi le donne votano e sono elette. Vogliamo utilizzare la Coppa del Mondo per influenzare positivamente la cultura dell’inclusione e il gender gap e promuovere lo sviluppo sociale in tutta l’aerea». In quest’ottica, il Qatar Foundation Stadium diventerà la Casa della Federazione Femminile. Possibilità assolutamente remota in terra iraniana, nonostante l’origine persiana del Qatar e i rapporti ancora piuttosto stretti tra le due nazioni.
La Rivoluzione Islamica del 1979 e l’ascesa dell’Ayatollah Khomeini, infatti, hanno significato per l’Iran un volto nuovo tendente all’estremismo politico e religioso. Prima di allora, la situazione nel Paese era risultata molto diversa, nonostante al potere vi fosse stata la storica famiglia dello Scià Mohammad Reza Pahlavi, il re spalleggiato dagli Stati Uniti e messo in fuga per quel processo di occidentalizzazione di facciata concretizzatosi soltanto in politiche oppressive, corruzione, povertà e crescente insofferenza nei vari strati della popolazione. Così, l’arrivo dello sciita era parso un’importante opportunità che, tuttavia, ha portato negli anni a una vera teocrazia, un velayat-e-faqih, letteralmente governo del giureconsulto, che ha reso il Paese una Repubblica Islamica, vale a dire una terra dove la sharia, la legge coranica, la fa da padrona. Da allora, l’Iran è mutato completamente dal punto di vista sociale, economico, politico e culturale. In particolare, a essere cancellati sono stati i diritti delle donne, ridimensionate a mere servitrici.
Molte, infatti, sono le norme che relegano le iraniane a un ruolo di subalternità. Una donna, ad esempio, ha diritto solo a metà dell’eredità che le spetterebbe rispetto ai fratelli, la sua testimonianza in un processo vale la metà di quella di uomo così come la sua vita vale la metà ai fini di un risarcimento in caso di incidente. Ella, inoltre, è sottomessa alla tutela del marito o, se nubile, a un altro componente maschio della famiglia, un tutore che deve persino riconoscerle il permesso per rinnovare il passaporto.
Altre coercizioni riguardano, poi, l’abbigliamento. Su tutte, l’imposizione dell’hijab. Per coloro che non lo indossano, dai nove anni in su, sono previsti multe o carcere. Obbligatorio è poi portare vestiti lunghi e larghi o pantaloni. Qualsiasi cosa, insomma, che copra le forme e lasci liberi mani e piedi. A tal proposito, una foto scattata a Teheran nel dicembre di due anni fa è diventata simbolo di numerose manifestazioni. Una giovane attivista, in piedi e senza velo, sistemato su un bastone retto come una sorta di bandiera, ha fatto il giro del mondo, incoraggiando molte donne, come la stessa Masih Alinejad prima di lei, a privarsi del copricapo e a scattare un selfie per ribadire la propria libertà furtiva.
Anche nella vita politica ci sono pesanti restrizioni. Una donna non può essere eletta Presidente della Repubblica e fortemente limitata è la sua rappresentanza in Parlamento, nonostante questa abbia diritto al voto. Abusi, stupri, molestie e violenza domestica, poi, sono pratiche piuttosto impunite e la parità di diritti in ambito coniugale è nei fatti ancora nulla. Il matrimonio, ad esempio, denuncia Amnesty International, è forzato e precoce. Secondo il rapporto 2013-2014 dell’Organizzazione Nazionale del Registro Civile iraniano, infatti, le ragazzine sposatesi tra i 10 e i 14 anni nel periodo in esame sono state 41226 e quelle coniugate con un’età inferiore ai 10 anni 201. Come se non bastasse, per il Codice Civile una donna intenzionata a divorziare deve necessariamente provare le difficoltà insopportabili che l’hanno portata a quella decisione, mentre a un uomo è permesso separarsi senza fornire una giustificazione. Ai mariti, poi, è garantito il diritto esclusivo di avere almeno due mogli fisse e di contrarre un numero senza limiti di Sigheh, matrimoni temporanei.
Niente mantenimento, invece, a coloro che sarebbero venute meno ai doveri coniugali, come i rapporti sessuali e l’abbandono del tetto condiviso senza il permesso dell’uomo. Per l’Iran Human Rights Documentation Center (IHRDC), infatti, l’incapacità della moglie di soddisfare i desideri del marito, senza una scusa accettabile, costituisce Nushuz, disobbedienza, vale a dire perdita dei propri diritti. Ancora oggi, inoltre, al centro del contratto matrimoniale c’è il Tamkin, una sottomissione che si traduce in disponibilità sessuale senza ostacoli. Le relazioni tra donne omosessuali, invece, sono punite con 100 frustate e, in caso di quarta recidiva, anche con la pena di morte.
Sempre Amnesty International, per l’anno 2016-2017, ha denunciato che, con l’aumentare delle rivolte, le autorità hanno classificato qualsiasi iniziativa legata alla lotta per le pari opportunità come attività criminale. Nonostante questo, però, le donne iraniane restano sempre in prima fila, pronte a combattere per i diritti propri e per quelli del Paese che amano. Un Paese di forti contraddizioni, dove i social sono vietati ma le VPN in qualche modo accettate. Un Paese dove ogni anno più di 150mila giovani istruiti partono, contribuendo a uno dei più alti tassi di fuga di cervelli al mondo. Un Paese dove il fuoco di Sahar Khodayari non ha alcuna intenzione di smettere di ardere, illuminando la notte buia di un cielo destinato a tornare blu come quella ragazza che per esso si è sacrificata.