Napoli e il tufo, due facce della stessa medaglia. La città, fondata tra due complessi vulcanici, il Vesuvio e i Campi Flegrei, poggia le sue fondamenta su una coltre di materiali piroclastici sciolti, le pozzolane alla cui base si rinviene un potente strato di roccia lapidea di origine vulcanica, il tufo, appunto, che risiede nel cuore di molti palazzi antichi e racchiude in sé ricordi lontani ma estremamente radicati.
Monte di Dio sembra una salita che non finisce mai, un nome importante per una via, che spalanca poi Napoli verso il cielo, il mare e il vulcano. Un’altura perfetta per un bambino che sul merlo di una torre può trascorrere ore e ore affacciato a scrutare, come una brava sentinella. Nello scenario che gli si presenta davanti vi è un teatro, un palazzo di principi e i poveri caseggiati dove ha trascorso l’infanzia. Per un anno intero il suo sguardo ha seguito con dedita attenzione la demolizione di un edificio vecchio: era il 1955 e dietro l’intonaco ormai stinto emergeva il tufo giallo che, in qualche modo, tornava a respirare di nuovo. Per dodici mesi, il bambino ha potuto affacciarsi soltanto di domenica o di sera, tanta è stata la polvere alimentata dalla demolizione dell’abitazione.
Il ricordo di com’era il palazzo è ben vivo nel suo immaginario e anche coloro che sudavano e lavoravano sopra le macerie. Gli uomini dai cappelli di carta non venivano risparmiati dalla polvere, soltanto i capelli sembravano non subire nulla, nemmeno il vento poteva niente contro il loro copricapo. Erano servi di un Faraone scorbutico che disfaceva piramidi. I bambini allora ascoltavano le storie sacre imprimendosi a mente strani particolari criminali. L’annegamento dei neonati maschi degli ebrei per mani degli egiziani, la strage dei bambinelli eseguita da Erode. A Napoli l’infanzia risultava qualcosa di rischioso, morire era facile, spesso un bambino si sentiva il parassita di un adulto e l’unico modo per riscattarsi da questa condizione era il lavoro minorile.
Ma poi è stato il turno dei muri perimetrali, il loro crollo ha permesso al giovane protagonista di guardare all’interno degli appartamenti e vedervi la vita lì rimasta sotto forma di figure sbiadite che si aggiravano lente, sospese in aria. La nonna gli diceva sempre di non guardare il buio della casa di fronte perché avrebbe potuto trovarvi ‘o munaciello, ma il bambino non ha visto affatto monacielli bensì facce di vecchi che vagavano per le stanze, in qualche modo rimasti lì con la morte che non li aveva portati via. Sono tanti i morti che il piccolo protagonista ha seguito con lo sguardo, ma uno di questi lo ha colpito particolarmente: una bambina di poco più grande di lui. Affacciata a un balcone che non c’era più, guardava fuori, ma guardava oltre, sorpassando lo sguardo di lui. La loro è stata un’amicizia particolare, avvolta costantemente dalla coltre gialla del tufo, di cui non ha mai potuto parlare con i grandi: avevano paura delle visioni che rotolavano negli occhi dei bambini, delle processioni dei sogni in piena veglia e giorno. Inizialmente è stato lui a sentirsi un fantasma, ma poi lei ha iniziato a vederlo, a sorridergli, mentre i giorni passavano veloci.
Quando un palazzo crolla anche le vite sembrano andare via insieme a esso, perché si attaccano alle pietre e restano lì a smaltire la nostalgia di non esserci più. Un anno è ormai trascorso, l’edificio non c’è più e il bambino inizia la scuola. Nuove esperienze che surclassano altre, ricordi che sbiadiscono perché è tempo di fare spazio a qualcosa di diverso e il suo affacciarsi alla finestra non è più importante. Probabilmente, quel desiderio è sparito insieme alla bambina. Il giovane protagonista ormai si affaccia sui libri e sulle parole crociate, avviamento al traffico della letteratura. Il tempo lo ha spinto a cambiare, a diventare qualcun altro affinché fosse possibile evitare i fallimenti del passato – il suo non riuscire a trattenere lì la sua amica –, così come le case che oggi si costruiscono con altri materiali. L’autore, in questo piccolo spaccato di vita, racconta di un’infanzia dormita in camere intonacate sopra la roccia, ascoltando le ninnananne delle terre flegree che Erri De Luca chiama sante balie del sud e di quella città dall’odore di tufo che, morbido, lo puoi pure segare, ma non lo puoi tenere prigioniero.