Era il 1987 quando la pedagogista italiana Sofia Corradi costituiva il Programma Erasmus, oggi Erasmus+, un programma di mobilità studentesca dell’Unione Europea che dà la possibilità a qualsiasi studente europeo di viaggiare e conoscere il Paese, la cultura e soprattutto l’aspetto scolastico di un altro Stato dell’UE. Un progetto audace che le è valso il soprannome di mamma Erasmus.
Normalmente si associa tale attività a studenti universitari, ma l’Erasmus è e deve essere pensato anche per studenti più giovani, come quelli delle scuole medie, i quali stanno affrontando un momento della vita di grandi trasformazioni e consapevolezze. Un momento perfetto per comprendere fin da subito il valore della diversità, l’importanza di conoscere una cultura e un sistema scolastico nuovi e meravigliosi, nell’ottica della tanto agognata ed esaltata inclusione. Un sentimento, un concetto di vita, che può essere raggiunto soltanto tramite la conoscenza, il confronto e l’empatia. Ed è ai giovanissimi che prima di tutto si deve parlare.
Per questo motivo, abbiamo incontrato e intervistato il Prof. Nicola Di Muzio, dirigente dell’I.C. Carlo Santagata, a seguito del progetto triennale Erasmus+ promosso per gli studenti della scuola secondaria con il patrocinio del Comune di Portici (Napoli), intitolato I am not a robot. Un progetto sull’uso consapevole delle tecnologie svoltosi nel mese di maggio, con Paesi partner quali Belgio (Paese coordinatore), Bulgaria, Spagna, Lettonia, Grecia, grazie anche alla coordinazione della Prof.ssa Annalaura Marino. Finalmente uno scambio in presenza, dopo le tante limitazioni e attività online dovute all’emergenza Covid di questi anni, che mette in relazione scuola e conoscenza del territorio, attraverso la scoperta da parte degli studenti stranieri di alcune delle eccellenze e bellezze nostrane, dal Parco del Vesuvio al centro ENEA, al centro storico di Napoli, agli Scavi di Ercolano, al bosco e alla meravigliosa Reggia di Portici.
Il progetto Erasmus+ non è un’iniziativa semplice da gestire ma rappresenta oggi un modo di vivere e pensare allo studio, all’interculturalità e all’Europa. Come mai la scelta di questa iniziativa e del tema I am not a robot?
«Il tema è triennale e si basa sul coding, perché abbiamo ritenuto che esso sia un’attività molto produttiva per questa fascia di età. I am not a robot vuol dire che possiamo utilizzare gli strumenti digitali ma nello stesso tempo teniamo molto all’impronta umana, a come le persone possano usare a proprio vantaggio, e non subire, elettronica, robotica e tutti quegli strumenti in grado di migliorare la vita umana».
Come dirigente scolastico dell’I.C. Carlo Santagata, che tipo di obiettivi si è prefissato riguardo il progetto?
«Rispetto al progetto generale dell’Erasmus, sono sempre stato molto favorevole perché credo che sia la migliore risposta all’intolleranza, al razzismo e agli stereotipi, in quanto, inevitabilmente, quando le persone si conoscono fra loro vengono a cadere tanti pregiudizi dovuti alla scarsa conoscenza dell’interlocutore, di chi ci sta di fronte. Questo vale sia in generale sia per le varie etnie: se ai ragazzi tra gli 11 e i 14 anni, ma anche più piccoli, facciamo conoscere individui di altri Paesi, con abitudini e culture diverse, credo che ciò possa essere molto produttivo e che possano crescere persone immuni dai pregiudizi che abbiamo interiorizzato noi adulti. Pregiudizi che producono nel tempo dei danni enormi. Quindi si deve rincorrere soprattutto questo tipo di senso della comunità, che dalla parrocchia, dal quartiere, si allarga all’Europa e magari anche oltre. Credo che la soluzione sia proprio questa, allargare sempre più i confini delle nostre esperienze. Perché la conoscenza va contro il razzismo».
Facendo una ricostruzione rapida, quali risposte ci sono state da parte degli studenti nel tempo?
«Gli studenti e le famiglie rispondono benissimo. Non nascondo che dobbiamo effettuare dei sorteggi per scegliere i ragazzi partecipanti, perché per evidenti problemi economici sono di numero limitato. Ma c’è una risposta collettiva molto forte. Si immagini che nascono delle amicizie che saranno per sempre. Mentre prima le nostre relazioni erano limitate al quartiere, raramente a persone di altre città, questi nostri ragazzi oggi hanno la possibilità di avere degli amici greci, belgi, lettoni ed è una cosa meravigliosa che fino a poco tempo fa assolutamente non potevamo prevedere. Immagini l’apertura mentale che ciò può comportare e cosa può fare di benefico nella costruzione della persona prima ancora che dello studente. Una persona che avrà a che fare con modi di vivere differenti e che quindi sarà assolutamente aperta a tutto ciò che è la novità, perché il segreto è non aver paura della novità e questo è possibile solo attraverso la conoscenza».
Di conseguenza anche i social network, in questo senso e in riferimento al tema scelto, diventano uno strumento utile.
«Assolutamente sì, perché poi spinge a un uso virtuoso della tecnologia, dei social, che è quello di rinsaldare le conoscenze che sono lontane nel tempo ma che poi si avvicineranno magari nel mondo adulto, quando ci sarà anche la possibilità di muoversi in maniera più frequente».
Quale pensa sia l’impatto che queste iniziative possono avere sui giovani, soprattutto in riferimento al loro futuro scolastico e di vita? Contribuiscono all’idea di società che secondo Lei si vuole andare a creare?
«Come ho già accennato, parliamo della costruzione di una società scevra dagli stereotipi, dalle intolleranze, da forme di razzismo, dalla paura della diversità. Perché credo che il male che affligge questo tempo sia la paura della diversità e non perché siamo pregiudizialmente contro la diversità, ma proprio perché consideriamo ciò che è diverso da noi un pericolo. Se invece abituiamo i ragazzi a considerare la diversità un valore aggiunto, ecco che cambia la mentalità, cambiano i valori che sono alla base della società. È quindi un’operazione altamente virtuosa».
Contribuiscono anche all’idea di inclusione – parola oggi utilizzata in ambito scolastico più che mai – che ogni scuola e Paese dovrebbe avere?
«L’idea dell’inclusione si collega certamente a quanto detto. Includere non vuol dire tollerare, sono due concetti molto diversi. L’idea della tolleranza è quella che dice “vabbè, sei diverso da me e nonostante ciò ti tollero, non mi dai fastidio” e questo è comunque un primo passo. L’idea di includere, invece, significa sposare la diversità, dire “io ti includo nel momento in cui ciò che fai non è inferiore a quello che faccio io”. Può essere diverso ma certamente di eguale valore. E questo concetto il progetto Erasmus+ lo valorizza e lo porta avanti con grande forza».
Un consiglio per tutti gli studenti che hanno intenzione di partire, di scoprire e approcciarsi a questi interscambi culturali.
«Il consiglio che posso dare è quello di farlo sempre più spesso, ogni volta che vi è possibilità. È l’unica arma per formare appunto una società senza barriere, senza le forme di intolleranza che vediamo quotidianamente. Perché io collego molto l’intolleranza all’ignoranza, non tanto dal punto di vista dell’erudizione ma rispetto ad altri usi, costumi, modi di vedere la vita che sono peculiari di ogni Paese e cultura. Quindi quanto più si riesce a conoscere il prossimo tanto più si diventa persone di valore, che riescono a fare propri i valori altrui. Il mio consiglio è quello di relazionarsi costantemente con chi è diverso, sia nel nostro quartiere sia nella nostra città, inteso come censo, stato sociale o come qualsiasi cosa non sia per noi la norma, ma sia anche come nazione, Paese. Questa è la chiave se vogliamo essere dei buoni educatori, dei buoni formatori».