Tutti usiamo le emoji. Che sia la faccina passivo-aggressiva, la melanzana molesta o la danzatrice di flamenco, questi simpatici simbolini si sono inseriti con preponderanza nelle nostre chat. Hanno modificato il registro del nostro linguaggio, dando brio ai nostri flirt e alle fotine dei tramonti su Instagram. Ricordo bene quando non erano altro che graziosi blob gialli simili a dei Barbapapà. Oggi, la situazione è cambiata: le emoji sono sempre più accurate e realistiche. Come moderni geroglifici, possono simboleggiare un’enorme varietà di concetti e oggetti. Siamo in grado di rappresentare noi stessi e i nostri amici riconducendoci a tipi umani pre-categorizzati in base a genere, etnia e orientamento sessuale. Addirittura, possiamo registrare la nostra professione, il preciso tono di pelle e la nostra età. Raffigurare tutti, includere tutti, dare a tutti la possibilità di ricostruirsi in forma iconica.
Questo linguaggio è ormai così importante da essere diventato il principale punto focale di Unicode. Ma cos’è Unicode? Inizialmente, un’organizzazione non profit che si occupava di codificare ogni tipo di carattere su computer, telefoni e siti web. Adesso, è il Gran Consiglio delle Emoji. Lo standard Unicode copre oltre 110mila caratteri di cui solo mille sono emoji, ma queste attraggono la maggior parte dell’attenzione e delle attività del Consorzio. Perché? Beh, gran parte dei membri di Unicode lavora per società tech come Adobe, Apple, Google e Microsoft. Alcune di queste compagnie hanno scoperto il potere economico delle emoji durante l’enorme proliferazione degli smartphone e la forte competizione tra aziende. Le faccine divennero importanti: erano in grado di indirizzare gli acquirenti verso un sistema invece che un altro, di attrarre nuovi giovani portafogli.
La Apple, in particolare, nel 2015 lanciò un nuovo iPhone con set di emoji tutto nuovo. Non più solo faccine gialle, piatte e stilizzate, ma personaggi tridimensionali, con volume e realismo. Con orgoglio, la nota azienda presentò anche delle emoji per le coppie omosessuali. Da quel momento, nulla è stato come prima. Le emoji, da linguaggio iconico usato per comunicare emozioni, si sono evolute in vere e proprie rappresentazioni del sé. Rappresentazioni, aihmé, estremamente pallide. Sì, nel momento stesso in cui le faccine gialle divennero bambini veri, sorse un problema: gli omini erano tutti caucasici. Internet non ci mise tanto ad accorgersene e la discussione scoppiò sul web. Milioni di persone firmarono petizioni che chiedevano alla Apple di aumentare la diversità.
Le emoji bianche, poi, erano apparse in un momento ostile. Giganti tecnologici come DropBox, Pinterest, Airbnb e Twitter avevano pubblicato statistiche che rivelavano l’assenza di donne e persone di colore tra i loro lavoratori, uno scandalo che fece infuriare tutte le minoranze. Ognuna di queste compagnie assunse dei diversity managers, figure manageriali deputate all’inclusione. Unicode venne subito incaricata di mettere una pezza sulla situazione e calmare le acque. È così che nacquero gli skin tone modifiers: partendo da una base gialla neutra, si lascia all’utente la possibilità di modificare il colore della “pelle” dell’emoji in base al proprio. Interessante fu la prima risposta di Google, che si rifiutò di inserire i modifiers. La ragione era che le emoji di Google sono un gioco, servono solo a comunicare emozioni. Non sono fatte per sembrare umane, né per riflettere caratteristiche umane.
Tempo qualche mese e Google cambiò idea. Tutte le piattaforme si erano ormai sbarazzate dei blob e loro erano rimasti esclusi. Così, anche il colosso copiò le emoji della Apple. Lo spazio lasciato all’immaginazione si ridusse drasticamente ovunque, costringendo gli utenti ad auto-etichettarsi sulla base di categorie preimpostate. Categorie che, man mano, sono diventate sempre più insoddisfacenti. Se la tua ambizione è includere ogni sfumatura della razza umana, aumentando le categorie aumenteranno le richieste: perché ci sono gli uomini pelati e non le donne pelate? Perché alcune disabilità ci sono e altre no? E il genere neutro dove sta? Ci vogliono i capelli afro, le donne con l’hijab, gli uomini coi baffi e le donne coi baffi. Nulla è abbastanza, qualcuno resterà sempre fuori. Forse, i blob gialli erano una delle poche aree grigie rimaste, uno spazio dove immaginare anche corpi non conformi e non etichettati. E, ora, anche quello è andato.
Alle etichette si accompagna sempre il profiling. Nel 2016, Facebook annunciò con orgoglio l’uso del profiling per affinità etnica: un’innovativa forma di segregazione razziale, ora via marketing. Per la promozione del film Straight Outta Compton, l’Universal creò due trailer: uno aveva come target la “popolazione generica” e l’altro quella afroamericana. Il piano fu il risultato di due team super inclusivi che avevano lavorato assieme per dividere l’audience americana in scaglioni. Facebook, di rimando, trovò il modo di indovinare “l’affinità etnica” di un suo iscritto tramite l’analisi e la categorizzazione dei dati raccolti, anche se il suddetto iscritto negava l’estrazione di informazioni. Insomma, anche se hai l’immagine del profilo con Naruto, le piattaforme sono in grado di ricostruire il tuo background etnico tramite like, ricerche e commenti. Ovviamente, le emoji facilitano solo il compito.
In base a questi dati, cambiano le pubblicità e i contenuti ai quali siamo esposti. È provato che su Instagram, usando la stessa emoji ma con toni di pelle diversi, cambiano anche i risultati della ricerca. Foto differenti, video differenti, prodotti e trailer differenti. Addirittura, programmi politici differenti: ormai sappiamo bene che gli slogan e i punti focali di un partito mutano in base alla persona che li ricerca. Mentre si incoraggia la profilazione e la ghettizzazione, si inneggia all’inclusione e alla rappresentazione. Google ha presentato con orgoglio un documento intitolato Espandere le professioni delle Emoji: ridurre la diseguaglianza di genere, nel quale l’inserimento di una donna-emoji manager è stato sbandierato ai quattro venti come atto rivoluzionario. Nel frattempo, il suo ultimo report sull’inclusione registra il 32% di donne assunte a fronte del 67% degli uomini.
Pessime sono anche le percentuali delle minoranze etniche coinvolte, in particolare quelle della comunità afroamericana e dei nativi. Le grandi aziende si sono occupate con cura di inserire ogni sfumatura di pelle all’interno delle nostre tastiere, ma non nei loro consigli d’amministrazione. Le istanze politiche di inclusione sono state riciclate e ridotte in una più conveniente, superficiale e inutile forma di rappresentazione di noi stessi per scopi di marketing. Il discorso sulla diversità fatto proprio dalle compagnie è egalitario e depoliticizzato, comodo e proficuo: e il peggio è che ha grande successo. Ogni volta che un nuovo simbolino inclusivo viene aggiunto la comunità di internet è felice e guarda con affetto al suo colosso tech di fiducia. Siamo di fronte al classico washing capitalista, che però influisce radicalmente sul nostro modo di comunicare, scoprire il mondo e raccontarci.
È urgente un cambio di paradigma. Come scritto in Modifying the Universal, non possiamo aspettarci una soluzione per l’inclusione nel prossimo update. E aggiungo: non la troveremo neanche nel prossimo film di Hollywood o nella prossima iniziativa aziendale. È proprio il rapporto venditore-acquirente a produrre superficialità e depoliticizzazione. Non c’è speranza per il marketing, per le pubblicità o per le grandi compagnie: è la loro stessa natura a impedire un risultato utile. Non si tratta di benaltrismo, la rappresentazione ha un valore. Ma, in questi casi, dobbiamo avere lucidità. Non ha senso sprecare tempo ed energie per aprire un dialogo con Google o con Apple sulla diversità. Le nostre istanze hanno bisogno di nuovi spazi per crescere, di luoghi dove non vengano svuotate di contenuti. Luoghi che dobbiamo trovare da soli, in quelle zone grigie dove c’è ancora posto per la creazione.