Descrivere in poche righe la vita e la carriera di Emma Bonino non è cosa semplice. Nessuno ha inciso sulla politica italiana recente quanto la Senatrice originaria del Piemonte e nessuno sembra essere in grado di ricalcarne le orme. Comunque la si pensi nei confronti del suo operato, chiunque converrà che è cosa rara – cercando tra i protagonisti della scena moderna istituzionale – trovare chi, come lei, sia in grado di dedicare oltre quarant’anni a battaglie a favore di un’unica corrente, dei diritti civili, degli ultimi. Dire Emma Bonino vuol dire politica radicale, vuol dire passione e tenacia.
È stata Eurodeputato, Commissario Europeo, ha servito il Paese in qualità di Ministro nei governi Romano Prodi ed Enrico Letta, ed è stata Vicepresidente del Senato dal 2008 al 2013. Il Partito Socialista propose persino la sua candidatura al Quirinale e, stando ai sondaggi che circolavano in quegli anni, il popolo italiano avrebbe salutato con gioia la sua elezione. Il suo impegno, dentro e fuori le istituzioni, ha toccato temi delicati quali l’aborto, la mutilazione dei genitali femminili, l’eutanasia, ed è strenua sostenitrice del movimento femminista.
Con la sua ultima sfida politica +Europa – dice – mira a difendere i principi di libertà su cui la UE è stata fondata, coinvolgendo i tanti giovani che dai principali partiti non trovano ascolto. L’abbiamo incontrata, Emma Bonino, provando a ripercorrere alcune delle tappe fondamentali del suo percorso, concentrandoci non solo sul proprio passato, su ciò che è stato fatto, ma anche su quanto c’è ancora da fare. Sempre in un’unica direzione – per lei irrinunciabile – quella radicale.
In una recente intervista al Corriere della Sera ha svelato che quando incontrò Nelson Mandela, questi Le disse: «La cosa più difficile è cambiare se stessi». Dopo oltre quarant’anni di politica, Lei si sente cambiata? In cosa?
«Quello è stato uno degli incontri che mi ha segnato di più. Non credo di essere cambiata. Forse nel corso degli anni ho preso sempre più consapevolezza delle problematiche che hanno costituito il motivo della mia azione politica. Ad esempio, dopo aver vissuto in prima persona l’esperienza dell’aborto clandestino, ho deciso che quell’umiliazione non avrebbe dovuto viverla più nessuna donna. Anche l’incontro con Luca Coscioni e Beppino Englaro mi ha aperto gli occhi su un mondo che non conoscevo: quello dei malati e del loro diritto di scegliere come vivere e come morire. Lo stesso dicasi per le donne africane a cui mi sono unita per la battaglia contro le mutilazioni dei genitali femminili, e via dicendo. Tutte queste esperienze mi hanno innegabilmente segnato e hanno cambiato il modo di avvicinarmi a talune questioni.»
Perché si è sempre dedicata alla politica radicale? E, soprattutto, in che modo si può fare politica radicale in un tempo in cui tutto sembra dettato da logiche liberiste e di mercato?
«L’essere radicale e fare politica radicale è diventata la passione della mia vita. Non riesco a immaginare uno scenario in cui io possa fare una politica diversa da quella radicale, proprio perché essere radicale significa avere un atteggiamento laico, liberale, federalista per l’Europa, nonviolento ed ecologista. Essere radicale significa anche schierarsi per una società più aperta e democratica, con più diritti e opportunità, per chi merita e per gli ultimi, in cui ciascuno possa scegliere liberamente e responsabilmente. Detto questo, non credo che il ritorno a uno Stato padrone possa, nella situazione economica italiana e globale, essere ancora preso in considerazione. Sono convinta che la libera concorrenza faccia bene all’economia e che il lavoro lo crei l’impresa e non lo Stato. Mi dissocio però da chi mi accusa di iperliberismo, proprio perché, come già detto, non si può definire una spietata liberista chi combatte per gli ultimi e gli emarginati, ma lo fa con la consapevolezza che non si fa solidarietà distribuendo miseria. Peraltro, proprio la globalizzazione economica – che non è comunque un pranzo di gala – è stato il più straordinario strumento di emancipazione economica di miliardi di persone nel cosiddetto Sud del mondo.»
Qual è la Sua idea di Europa?
«Sono convintamente federalista, perché nessun Paese da solo è in grado di fronteggiare sfide come le migrazioni, le grandi crisi finanziarie, il mutamento climatico o il terrorismo internazionale. Oggi sono gli Stati nazionali a fallire. Le reazioni nazionali sono, sempre più, illusioni nazionali. Un’Europa federale è l’unica che possa risolvere anche il deficit di democrazia determinato dalla crescita esponenziale degli accordi intergovernativi, in gran parte responsabili delle reazioni populiste e nazionaliste con cui dobbiamo fare i conti. Io stessa, con De Andreis e altri, ho proposto un progetto di federazione che è stata definita “leggera” e che partiva dal problema di una difesa europea comune e quasi triplicava l’attuale bilancio dell’UE. Solo stando uniti si possono affrontare le sfide attuali. E non è affondando la barca un po’ vecchiotta che potremo raggiungere l’altra sponda. È riparandola e migliorandola che potremo beneficiarne tutti. Del resto, si tratta di fare quel salto tanto auspicato da Spinelli, che, ahimè, si è fermato a metà del guado.»
Perché tanti giovani votano +Europa e si riconoscono in Emma Bonino? I giovani sono pro Europa, ma l’Europa è pro giovani?
«I giovani votano +Europa, perché sanno perfettamente che il loro futuro si gioca in un continente di 500 milioni di persone, con tutte le opportunità che un’area così vasta può dare. Purtroppo, anche tra i giovani c’è ancora dell’euroscetticismo, ma basterebbe fare informazione su tutti i vantaggi che questa Europa offre loro. Dalla libertà di poter studiare e lavorare in qualsiasi Paese, al sistema di welfare, che, seppur perfettibile, è unico al mondo, alle libertà e ai diritti conquistati anche per l’integrazione di best practices di altri Stati membri. Vede, i ragazzi di oggi, per loro fortuna, sono nati in un continente che è il più ricco al mondo, non solo in termini di PIL, che tutela diritti che in altre zone del pianeta sono totalmente negati e che da 70 anni garantisce la pace di tutti noi. Certo, c’è ancora molto da fare e soprattutto a livello di politica nazionale, ma non penso in alcun modo che l’Europa sia contro i giovani.»
Perché ha detto no al Conte bis? Ha influito la disputa con i 5 Stelle sulle sorti di Radio Radicale?
«Convintamente, come deciso dalla direzione di +Europa, ho votato contro la fiducia a questo governo. Non per pormi nell’ottica di “scommettere” contro l’Italia. È ovvio che prima di indire nuove elezioni il Presidente della Repubblica, come da mandato costituzionale, doveva verificare la possibilità di nuove maggioranze ma, per quanto mi riguarda, non credo che questo possa essere il governo della discontinuità nella misura in cui il Presidente del Consiglio Conte può essere il successore, ma non l’alternativa di se stesso. E di certo promettere quasi tutto a quasi tutti, senza che ci siano coperture di sorta, è un atto di irresponsabilità che potrebbe generare quella frustrazione che servirebbe solo a rafforzare Salvini. Rispetto alla seconda parte della domanda, non c’è alcuna connessione tra la vicenda di Radio Radicale e la scelta di non votare la fiducia, se non per il fatto che un atteggiamento populista che mira a silenziare il giornalismo indipendente e un servizio davvero pubblico come quello di Radio Radicale non mi fa ben sperare che ci sia una spinta volta alla tutela della democrazia da parte dei 5 Stelle.»
Che fine fa il PD senza Matteo Renzi? E Renzi senza il PD?
«Non ho la palla di vetro, né faccio parte del PD, per cui non so che genere di equilibri si determineranno dall’uscita di Renzi. Certamente parte dell’elettorato del PD è legato alla figura di Renzi e ciò determinerà una diminuzione di consensi per il Partito Democratico per come finora lo abbiamo conosciuto. Ma non saprei in che misura e con quali conseguenze. Per il resto, so quello che ciascuno di voi legge sui giornali, ma nient’altro.»
Ci racconta il Suo rapporto con Marco Pannella?
«Marco mi manca. È stata una parte fondamentale del mio essere radicale. Di Marco non dimenticherò mai una frase che mi disse una volta, anche se all’inizio non l’avevo capita tanto: “Se vuoi che una cosa non si sappia, hai un unico modo. Non farla”. I giovani lo adoravano. A me invece mancano le nostre litigate, perché a parte la diversità di carattere, formazione e generazione, il rapporto era difficile, ma lo abbiamo entrambi voluto, quindi governato. Però quello che mi manca è soprattutto la sua capacità di non essere mai mediocre; ho sempre pensato che lui fosse la mia polizza di assicurazione contro la mediocrità.»
Lei è promotrice del movimento femminista. In Pink Tank di Serena Marchi (Fandango), rivendica il ruolo della donna nella politica. Quali sono le battaglie delle donne del 2020?
«Rispetto a quando ero ragazza io, la sensazione riguardo alla condizione femminile è completamente cambiata, e – occorre riconoscerlo – anche migliorata. Però la strada è ancora lunga e in salita, con rischi di ritorni indietro importanti. Ricordo la legalizzazione del divorzio e dell’aborto, il nuovo diritto di famiglia, l’abolizione del reato d’onore. Sono state battaglie importanti. Poi, come se avessimo corso troppo e troppo velocemente, ottenendo risultati storici, il movimento femminista si era quasi fermato, per prendere fiato. Ma sono ancora tante le battaglie da fare. Anzitutto per affermare quella sbandierata parità che non si è mai realizzata pienamente, né in termini retributivi a parità di mansioni, né nel ricoprire incarichi apicali, che restano troppo pochi per le donne. Resta preponderante la battaglia contro il femminicidio, che purtroppo le pagine di cronaca ci raccontano con una frequenza allarmante. Ma le battaglie per le donne non possono e non devono essere condotte solo dalle donne. Sono convinta che un reale avanzamento per noi tutte potrà esserci solo se questa battaglia verrà condivisa anche con gli e dagli uomini.»
Una vita spesa in favore dei diritti civili. Dalla legge sull’aborto, Suo grande caposaldo, al fine vita. A che punto siamo? Quali sono i prossimi passi?
«Le società evolvono. E questa evoluzione dovrebbe essere spinta o almeno accompagnata dal riconoscimento da parte legislativa di nuovi diritti. Invece è sempre valso l’inverso. Anche in Italia le leggi sono state adottate sempre vincendo resistenze di ogni sorta, quando nella società i mutamenti erano in atto o, nella maggior parte dei casi, quando si erano già sedimentati. Detto questo, di passi da fare davanti a noi ce ne sono ancora tanti e troppi. Basti pensare alla legge 40 del 2004 sulla fecondazione assistita, con anche la previsione di superare quel limite posto alla fecondazione eterologa, allo ius soli e all’eutanasia, solo per citarne alcuni. Senza dimenticare che i diritti conquistati non sono da considerarsi intoccabili, specie in momenti di politiche reazionarie. Come dico spesso, i diritti sono come andare in bicicletta, per cui se smetti di pedalare cadi. E così per i diritti: vanno nutriti, difesi e promossi ogni giorno. Quello che mi auguro è che i cittadini ritrovino la passione civica per lottare per i propri diritti. E, chissà, magari un giorno avremo una società in cui ognuno può essere ciò che è e ciò che vuole essere, indipendentemente dal sesso di appartenenza, dalla religione, dal credo politico.»
Per il nostro giornale, Mina Welby cura una sua personale rubrica su libertà di scelta e fine vita. Crede ci sia possibilità di riaprire il dibattito in Aula ora che non c’è più il veto delle destre?
«Spero fortemente sia possibile riaprire il dibattito in Aula sul fine vita. Di fatto, oggi abbiamo un nuovo governo, ma non c’è il tempo per poter prendere alcuna decisione prima della scadenza del prossimo 24 settembre fissata dall’ordinanza della Consulta. Ma non credo si tratti solo di un veto di destra. Ciò che è mancato finora è stata la volontà politica. Ho letto di una presa di impegno personale da parte di alcuni deputati del PD per sbloccare la situazione. Spero davvero sia così. È una battaglia di civiltà, per chi ama la vita e vuole vivere liberamente fino alla fine dei propri giorni.»