Alla foce del fiume Hudson, nella baia di New York, si trova un isolotto artificiale costruito utilizzando i detriti della metropolitana della Grande Mela. Sormontato da diversi edifici, tale pezzo di terra galleggiante prende il nome di Ellis Island, un’isola che precedentemente era stata un centro militare e che divenne poi punto d’approdo per tutti quegli immigrati che a causa dei cambiamenti sociali ed economici che affliggevano i loro Paesi d’origine decisero di solcare gli oceani per sbarcare in America.
Dopo che, in precedenza, il Castel Garden Immigration Depot di Manhattan aveva smistato gli 8 milioni di espatriati sul territorio americano, dal 1852 al 1954, fu Ellis Island a diventare il centro d’immigrazione degli Stati Uniti. L’isola assunse il ruolo di punto di transizione per 12 milioni di esuli che avevano lasciato una vita ricca di sofferenze in cerca di una nuova esistenza carica di gioia e soddisfazioni nella terra promessa che rappresentava il Nuovo Continente. Tuttavia, prima di poter andare incontro a questo invitante futuro, milioni di europei, su quella che poteva in un primo momento sembrare l’isola delle speranze, dovevano fare i conti con una severa procedura di selezione che decretava se fossero idonei o meno a toccare il suolo nordamericano.
Dopo traversate interminabili, condotte in situazioni inumane, soprattutto per chi viaggiava in terza classe, su imbarcazioni fatiscenti, stipati in stanze sovraffollate, maleodoranti ed estremamente calde, una volta sbarcati a Ellis Island migliaia e migliaia d’immigrati venivano riuniti e subivano una vera e propria ispezione che poteva durare dalle tre alle sette ore. A essere in primis perquisiti erano i loro bagagli, in seguito loro stessi, posti sotto esame nella Registry Room: veniva chiesto di mostrare i documenti e di precisare con quale nave avessero raggiunto l’isola, si ponevano poi diverse domande sulla loro origine, sulle loro usanze, sul perché erano in America e sulla storia locale. Per di più, venivano ispezionati non solo da un punto di vista amministrativo, ma anche medico. Infatti, ad accoglierli erano spesso dottori che in pochissimo tempo dovevano diagnosticare il loro stato di salute: chi era sano riceveva il permesso di cercare fortuna nella Grande Mela, chi invece aveva problemi veniva marchiato con il gesso con delle sigle che ne indicavano la diagnosi e sottoposto a ulteriori indagini in un’altra stanza. Esami che talvolta portavano alla non accettazione degli individui sul territorio statunitense.
Dal 1917, pretesto per rispedire queste persone nei loro Paesi d’origine con le stesse navi che le avevano condotte nella patria della Statua della Libertà che padroneggiava proprio su Ellis Island, divennero anche le quote d’ingresso, che spesso non potevano essere pagate, e il test dell’alfabetismo: non solo le deformazioni fisiche e mentali erano una scusa per rispedire gli immigrati in patria, ma anche la loro ignoranza. Negli Stati Uniti venivano accettati solo coloro che potevano contribuire a rendere perfetta la nazione: i sordi, i cechi, i malati di mente non erano altro che un peso per quella terra, il sogno americano era un diritto solo per quelli che potevano rendere grande il Paese.
Su quell’isolotto artificiale le dure prove di selezione finivano per dividere famiglie e amici, costringevano gli immigrati a dover lottare contro pregiudizi e barriere linguistiche. Dopo aver passato anni a risparmiare per pagare il biglietto (si stima che un biglietto potesse costare dai 200£ ai 1000£ secondo la valuta odierna), chiave per scappare da guerre, carestie e tenori di vita di infimo livello, e aver affrontato traversate oceaniche estremamente pericolose, molti esuli si vedevano negare il diritto di ricominciare. E così quella Ellis Island che per loro doveva essere la terra delle promesse, della libertà, di quei valori positivi tutti incarnati dalla statua che li aveva accolti, da isola delle speranze mutava in isola del dolore.
Oggi, là dove un tempo sorgeva l’ufficio immigrazioni degli Stati Uniti, nel Main Building c’è un museo: l’Ellis Island Immigration Museum. Un luogo che racconta dettagliatamente cosa significava essere immigrati tra il 1852 e il 1954, un istituto che forse farebbe bene visitare a tutti quelli che oggi negano ai rifugiati il diritto di approdare sulle nostre terre, perché ricorderebbe loro che, in fondo, per una qualsiasi ragione siamo stati, siamo e saremo tutti immigrati con il diritto di sognare un’esistenza migliore.