Il Libano è uno di quei Paesi di cui nessuno sa niente. Lo Stato del Vicino Oriente che affaccia sul Mediterraneo è una terra senza geografia, un inquilino del mondo costretto a pagare l’affitto agli occupanti di casa, che sono tanti e indossano maschere bianche, simbolo di morte e paura. Centrale per gli equilibri di una delle zone più calde del globo – il lembo di terra tra Siria e Israele – il Libano è, per questo, coinvolto nei destini dei tanti conflitti che caratterizzano l’area.
Fotografarne la storia vuol dire salire su un’altalena che oscilla tra gloriose epoche e un drammatico declino, dove a spingerne il destino su e giù sono gli interessi di un mondo meschino e cinico, vuol dire – soprattutto – guardare alla gente del posto e alle sue radici.
Ieri, 15 maggio, il Libano è stato chiamato alle urne per eleggere i rappresentanti del suo Parlamento, riconfermando (stando ai risultati preliminari, ci vorranno diverse settimane per formare il governo) la leadership di Hezbollah e della sua coalizione. Nulla di inaspettato – certo! – tuttavia, non una buona notizia per il Paese e la sua popolazione che rischiano altri quattro anni di ingovernabilità e precarie condizioni sociali ed economiche. Per capire, però, la complessità del modello elettorale libanese va detto che il sistema confessionale che vige nello Stato dell’Asia che affaccia sull’Europa determina la distribuzione dei seggi in base all’appartenenza delle varie comunità religiose, una scomoda eredità della guerra civile del 1989.
A leggere le poche testimonianze che riescono a venir fuori – il Libano è una nazione fortemente corrotta, dove la stampa non fa eccezione –, il sistema politico è completamente bloccato dalla corruzione e tutte le forze coinvolte alimentano questo stato di cose. Il dato dell’affluenza, inferiore al 50%, conferma la sfiducia delle persone del cambiamento promesso sui manifesti, scoramento tramutatosi ormai in depressione dopo gli ultimi quattro anni, dal 2018, durante i quali il PIL è crollato del 58%, l’inflazione annua ha superato il 200%, lo stipendio medio – al netto di una disoccupazione senza precedenti – è di 1 dollaro al giorno e il 75% della popolazione vive sotto la soglia di povertà.
Tornato alle cronache per pochi giorni nel 2020, quando nel porto di Beirut una devastante esplosione portò alla morte di centinaia di persone e al disfacimento di uno dei punti cardine dell’economia della capitale, il Libano non riesce a garantire energia elettrica per le 24 ore della giornata a tutti i suoi cittadini. Durante le notti buie, in cui neppure i lampioni riescono a restare accesi, le uniche luci che non si spengono sono quelle che illuminano i volti dei leader politici lungo le strade, i loro sorrisi e i vestiti alla moda, come riporta un crudo articolo dell’Economist pubblicato pochi giorni prima delle elezioni. Un modo per prevedere il futuro in Libano è guardare i manifesti elettorali e immaginare il contrario.
La terribile amministrazione di questi ultimi anni, tuttavia, non sembra basterà a rovesciare il potere di Hezbollah che, dopo aver trionfato nel 2018 con il suo gruppo armato radicale sciita (vicino politicamente all’Iran), ha rafforzato la propria posizione prendendo il controllo della maggior parte delle istituzioni del Paese e ampliando la propria forza militare, oggi superiore allo stesso esercito libanese, prospettiva a dir poco drammatica, soprattutto se si considerano le grandi guerre civili che hanno sconvolto il Libano nella sua storia recente.
Considerato gruppo terroristico da diversi Paesi occidentali, tra cui gli Stati Uniti, e da Israele, Hezbollah ha potuto far leva sulle leggi dello Stato che limitano, e quasi scoraggiano, ogni tentativo di opposizione. Anzitutto, la soglia di sbarramento è altissima, al 10%, e i finanziamenti per la campagna elettorale sono previsti – in ingente quantità – soltanto per i partiti più grandi. Così, anche le intenzioni di voto che minacciavano una proposta alternativa e di protesta – alla vigilia stimati intorno al 12% – sono andati sprecati.
Il futuro del Libano è, dunque, tutto da scrivere, anche se il prossimo domani non sembra promettere storie diverse da quelle scritte negli ultimi anni, racconti di spopolamento e migrazioni, con barconi che partono verso Cipro sempre più spesso e che si ribaltano, ma nel silenzio. Un futuro legato non solo alla politica interna ma – come detto in apertura – condizionato dalla temperatura sempre rovente dei propri confini, con il conflitto in Siria che troppe volte è entrato nel destino del Paese e la difficile convivenza con Israele a generare tensioni che, spesso, sono coincise con sanguinose battaglie.
A proposito di storie – e di libri, da sempre la più grande passione di questo giornale –, ve n’è una che racconta il Libano come poche altre, che aiuta a comprendere il destino del presente e le promesse tradite del passato di una delle terre più ricche di fascino e storia dell’intero pianeta: si tratta de La casa di pietra del collega giornalista Anthony Shadid, un viaggio – come lo ha definito John Freeman – alle radici di una regione per capire la storia di oggi, che non è mai predeterminata, ma intessuta nel quotidiano dei luoghi e della gente. Una lettura essenziale perché del Libano e delle sue sorti non si scriva più che nessuno sa niente.