Non drammatizziamo, non è successo nulla di catastrofico e nulla che non fosse già ampiamente previsto. In fondo, questa volta è toccato alla leader di Fratelli d’Italia (FdI) appropriarsi dei voti delle altre due principali forze di centrodestra ed è giusto che si assuma la responsabilità della guida del prossimo governo.
La differenza del numero dei voti dell’intera coalizione rispetto alle politiche del 2018 è di circa 70mila consensi in più ottenuti dalla Meloni e con molta probabilità di provenienza pentastellata. Poi che la leader di Fratelli d’Italia non abbia preso mai in maniera netta le distanze dall’estrema destra e che la fiamma continui a splendere nel simbolo, cosa volete che sia. Tutta roba che non serve a nulla e che non interessa a quella fascia di elettorato che con disinvoltura migra da Berlusconi a Salvini e ora alla Meloni. E poi i fedelissimi del ventennio che, come è giusto che sia, si identificano con la fiamma del MSI.
Sono le regole della democrazia, con tutte le anomalie possibili, ma inimmaginabili in un regime, e questo Giorgia Meloni lo sa bene: coerentemente, sempre all’opposizione del governo dell’ammucchiata, salvo l’approvazione di alcuni provvedimenti tra i quali l’invio delle armi in Ucraina, la leader di FdI ha perseguito una strategia che fin dall’inizio ha fatto presagire un progressivo gradimento di Fratelli d’Italia. La stessa strategia tempestivamente adottata dall’ex Presidente del Consiglio di due governi di colore diverso e la partecipazione a un terzo multicolore, cui va riconosciuta la capacità di aver ricompattato e strutturato un MoVimento allo sbando e di aver intuito per tempo che l’abbandono dell’agenda Draghi gli avrebbe fatto recuperare una parte dei consensi persi a opera di quel Luigi Di Maio trasformista dell’ultima ora mandato a casa per suo esclusivo merito.
E, a proposito di casa, difficile nascondere la soddisfazione: dovranno riprendere le loro attività lavorative Paola Taverna, Mario Adinolfi, Gianluigi Paragone, Simone Pillon, Renata Polverini, Luca Lotti, Umberto Bossi e Vittorio Sgarbi, salvo ripescaggi e diavolerie varie di una legge elettorale che può definirsi soltanto pessima, uscita dal cilindro del geniale Ettore Rosato, all’epoca PD, poi renziano, e al voto, oltre che del Partito Democratico, anche di Forza Italia, Lega Nord, Alternativa Popolare, Alleanza Liberal-popolare-Autonomie e altre formazioni minori, certi, tutti, di mettere in difficoltà il M5S ma restandone vittime essi stessi anche in considerazione della significativa diminuzione della rappresentanza parlamentare.
Dopo i primi exit poll e le proiezioni in base ai dati ufficiali, qualche illustre ex militante, prima del PCI e dopo del PD, ha scritto un post su un social di due parole: GRAZIE LETTA. Un disastro annunciato, un capolavoro politico quasi a voler togliere il primato a Matteo Renzi, un’ennesima débâcle del Partito Democratico dove dal 2007, anno di fondazione, si sono alternati ben nove tra segretari e reggenti, con Enrico Letta che dal 14 marzo di quest’anno ha sommato errore su errore, prima con l’alleanza annunciata con Carlo Calenda subito naufragata, poi con il divorzio dai pentastellati, la filosofia tutta democristiana del voto utile, la sopravalutazione del trasformista Di Maio e l’aver voluto marcare l’importanza di una competizione a due tra PD e FdI. Non ultima, la gaffe riferita a una sottolineatura dell’alleanza esclusivamente elettorale con Fratoianni e Bonelli, in verità alquanto conveniente per gli stessi al fine di garantirsi l’ingresso in Parlamento.
Ciliegina sulla torta l’annuncio che non presenterà la propria candidatura al prossimo congresso del partito previsto per il mese di marzo. Non un cenno alle immediate dimissioni, atto dovuto a risultati definitivi eppure neanche lontanamente nei pensieri del Segretario, dalla cieca fedeltà a Mario Draghi e alla sua agenda.
La sconfitta del Partito Democratico appare però attribuibile non soltanto a quanto in precedenza citato, ma anche a una linea politica centrista che soltanto nella fase finale della campagna elettorale ha accennato a spostarsi sui temi che stanno più a cuore alla sinistra, evidentemente rendendosi conto del sorpasso in atto sugli argomenti caldi che interessano alla gente e che Giuseppe Conte ha intercettato per tempo. C’è da augurarsi che Letta faccia quanto prima una seria e rigorosa autocritica e rassegni le dimissioni salvando almeno la faccia.
Appare alquanto ridicolo strapparsi le vesti per la schiacciante vittoria della Meloni e della sua capacità di aver divorato voti ai suoi alleati di coalizione, che certamente non le renderanno la vita facile. Forse meglio una volta per tutte capire se il maggior partito di quella sinistra nominale ha intenzione di rappresentare le fasce popolari e i valori della tradizione che lo ha preceduto, cercando di riunire tutte le componenti, anche quelle definite radicali, oppure perseguire il progetto del patto del Nazareno tanto caro a Matteo Renzi di una forza centrista che la strana coppia di Azione, sempre che duri, potrebbe porre in atto cominciando a fungere da stampella del prossimo governo con intenti tutt’altro che generosi.
Quanto è accaduto in questi giorni lo avevamo ampiamente previsto nei nostri articoli sull’argomento elezioni e, anche, sull’incidenza che ancora ha l’ex Cavaliere nell’ambito della coalizione di centrodestra continuando, tra l’altro, a portare in Parlamento, garantendole la rielezione, la sua attuale compagna Marta Fascina che dalla provincia di Reggio Calabria si è candidata neanche a dirlo in Sicilia, dove alla Presidenza della Regione è stato eletto a larga maggioranza Renato Schifani. Lo stesso che nel 2014 fu archiviato per concorso esterno a Cosa Nostra nonostante fossero “emerse talune relazioni con personaggi inseriti nell’ambiente mafioso o vicini a detto ambiente nel periodo”: ma per il giudice non bastavano per portarlo a giudizio. Il neo governatore è ancora oggi sotto processo a Caltanissetta per violazione di segreto, come ha scritto Il Fatto Quotidiano a poche ore dalla sua elezione.
Poca cosa se come si vocifera che l’ex capo del centrodestra potrebbe essere eletto a Palazzo Madama, quel Berlusconi a proposito del quale, in occasione delle votazioni per l’elezione del Capo dello Stato, Sabino Cassese disse: «sarebbe il primo Presidente della Repubblica pregiudicato». O, forse, il primo Presidente del Senato pregiudicato.