Marcello è una delle migliori persone che abbia incontrato. È un cattolico praticante, un buon padre di famiglia, il bibliofilo numero uno che abbiamo in Italia. Ha fondato con me Forza Italia, ma è in carcere a seguito di un processo politico. Credo e spero che possa cambiare il carcere con, magari, i domiciliari perché è anche in pessime condizioni di salute. Questa storia del mio amico Marcello Dell’Utri io la ricordo al mattino, alla notte, al pomeriggio, me la ricordo sempre, e mi sembra una cosa assurda che in questo Paese si possano fare cose così lontane dalla realtà e tenere in carcere, violando la sua libertà, una persona così eccezionale.
Appena due mesi fa, la maschera in plastica riconducibile a quel che resta dell’incandidabile Silvio Berlusconi tesseva, indisturbato, le lodi di Marcello Dell’Utri dinanzi a un gravemente silente Fabio Fazio, l’ex giornalista conduttore di Che tempo che fa. In quei giorni, il senatore forzista scontava la sua pena presso l’istituto penitenziario di Rebibbia, dopo una latitanza in territorio libanese e la condanna a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Riconosciuto come mediatore tra Cosa Nostra e – ma guarda un po’ – l’ex Cavaliere milanese, Dell’Utri attendeva gli esiti della requisitoria del processo sulla Trattativa Stato-mafia al cui termine sono stati poi accusati, per un totale di ottantotto anni di prigione, gli uomini che diedero vita al più vile dei rapporti tra istituzioni e criminalità organizzata e lo stesso braccio destro del Silvio nazionale, a scapito del quale sono state chieste altre dodici primavere di detenzione.
Per i pm, infatti, alla fine del 1993, il co-fondatore di Forza Italia si era reso disponibile a veicolare il messaggio intimidatorio per conto di Cosa Nostra, cioè fermare le bombe in cambio di norme per l’attenuazione del regime carcerario. Ciò è avvenuto quando un nuovo governo si era appena formato, nel marzo del 1994, con la nomina di Silvio Berlusconi alla carica di Presidente del Consiglio. L’accusa, inoltre, ha sostenuto che il rapporto tra tre le parti fosse del tutto paritario grazie all’amico Marcello, autorevole interlocutore del dialogo con Cosa Nostra.
L’accostamento del nome dell’uomo che governa questo Paese da più di vent’anni – ufficialmente e non – e la malavita siciliana non è, di certo, una novità. Così come non è una novità il suo rapporto piuttosto ambiguo con il bibliofilo numero uno che abbiamo in Italia. Alla luce delle recenti pesanti accuse, però, le parole pronunciate in prima serata su Rai Tre lo scorso novembre assumono un suono diverso che, ancora una volta, come se ce ne fosse bisogno, lede l’immagine di chi le ha proferite, di chi ha preferito fare pubblicità piuttosto che preservare il suo titolo di giornalista e quella del Paese intero che continua a prostrarsi ai piedi di colui che lo ha volutamente distrutto e, con alta probabilità, tornerà a farlo.
Racchiuso in un logo ormai celebre, infatti, in prossimità delle imminenti elezioni del 4 marzo, la scritta Silvio Berlusconi campeggia, oggi, sui manifesti che tappezzano le strade delle nostre città accompagnata da un sostantivo che sa di cattivo presagio: presidente. Anche se duole scriverlo, nonostante l’interdizione dai pubblici uffici, il leader di Forza Italia, che ha praticamente “estinto” la sua pena per frode fiscale nell’ambito del cosiddetto processo Mediaset – dato l’esito positivo dell’affidamento ai servizi sociali –, potrebbe, in un futuro non troppo lontano, ritornare Primo Ministro o prendersi quel Senato che lo fece decadere al termine del 2013. Difatti, sebbene la Legge Severino ancora penda sulla sua testa, il mai domo ex Cavaliere attende un verdetto dalla Corte di Strasburgo a cui il fido Niccolò Ghedini ha fatto ricorso per chiederne la piena riabilitazione al fine di sanare l’enorme ingiustizia subita. La risposta sospesa, però, se tardiva, potrebbe non essere l’unica alternativa: dal prossimo 8 marzo, purtroppo, Berlusconi avrà espiato la condanna, agguantando la possibilità di avanzare proposta ai giudici di riabilitazione penale, la quale, se accolta, farebbe decadere la sua inabilità a ricoprire cariche pubbliche. Il tutto, ovviamente, previa verifica di condotta e – poco ci crediamo – della sua posizione in altri processi che lo riguardano.
Tra questi, quello già archiviato nel 2011 ma riaperto lo scorso anno dalla procura toscana nei confronti di Berlusca, come lo chiama il boss Graviano, e – chi lo avrebbe mai detto – di Marcello Dell’Utri, entrambi indagati per le stragi di mafia del 1993 quali possibili mandanti occulti degli attentati di Firenze, Roma e Milano. Un’imputazione forte che, se fondata, darebbe risposte a quesiti irrisolti che il Paese ha sempre finto di porsi pur di non ammettere che la Seconda Repubblica è stata costruita grazie al sangue di Falcone e Borsellino, dichiarati eroi nazionali ma massacrati ogni giorno e a ogni tornata elettorale.
Certo, il secondo comma dell’articolo 27 della nostra Costituzione recita che l’imputato, per il principio di presunzione di innocenza, non è da considerarsi colpevole fino alla sentenza definitiva di condanna. Non saremo noi, quindi, a dichiarare criminali i due fondatori di Forza Italia. Dichiareremo delinquenziali, però, tutte le x che in passato sono state messe e che torneranno tra qualche settimana su quel logo discusso e discutibile che unisce, sotto la stessa bandiera, volti noti alle cronache per motivi ben lontani dai meriti politici. Dare nuovamente fiducia ai fedelissimi di Silvio vorrebbe dire staccare la spina a un Paese già in stato vegetativo, riconsegnandolo ipso facto a chi lo ha umiliato, comprato, deriso, fatto prostituire, svenduto al miglior offerente. A chi ha trasformato il Parlamento in un braccio distaccato di San Vittore. Le bombe non hanno smesso di esplodere, lasciano solo meno tracce, senza boato. Chiunque ne sia ancora oggi il mandante.
La rivoluzione si fa nelle piazze con il popolo, ma il cambiamento si fa dentro la cabina elettorale con la matita in mano. Quella matita, più forte di qualsiasi arma, più pericolosa di una lupara e più affilata di un coltello. Pensateci.