Quella del 6 aprile 2009 fu una notte lunga, per qualcuno infinita. L’Aquila fu svegliata da un violento terremoto, uno sciame sismico che sconvolse il capoluogo abruzzese e l’Italia intera. Le scosse causarono la morte di 309 persone – di cui 55 studenti fuori sede – e un numero imprecisato di feriti, ancora oggi leso nell’anima dal ricordo di una Settimana Santa atipica, una di quelle in cui Dio sembra essersi dimenticato dei suoi figli.
A non dimenticare, però, è stata Eleonora Calesini, allora ventenne, l’ultima vittima estratta viva dalle macerie aquilane, rimasta sospesa per ben 42 ore tra il desiderio di continuare a respirare e il terrore di un mancato saluto alla sua famiglia, a quei genitori che aspettavano notizie della loro bambina, sperando di vederla ritornare dall’inferno.
Oggi Eleonora, dopo un lungo percorso di riabilitazione alla quotidianità, è una donna adulta, ormai realizzata, felice di aver portato avanti gli studi – che all’epoca la vedevano iscritta all’Accademia dell’Immagine di L’Aquila – e quei progetti di un futuro dietro la macchina da presa che sta concretizzando con sempre maggiore soddisfazione. Con grande coraggio, lo stesso che l’ha accompagnata in quelle ore di attesa, ha deciso di raccontare la sua storia, la storia di una vita normale interrotta all’improvviso, e la forza di chi vuole ricominciare a tutti i costi. Ad accompagnarla, in questo viaggio di testimonianza, Debora Grossi, amica e collega di set. Insieme hanno pubblicato Il movimento dei sogni, edito da Fandango Libri, un prezioso messaggio di fiducia in se stessi e la risposta più valida a chi negli anni, addirittura sin dai primi istanti, ha scritto e riso di una tragedia figlia dell’ennesima vergogna all’italiana.
Le abbiamo intervistate.
Il movimento dei sogni, il vostro primo libro, è un’affermazione di vita molto forte. Attraverso le sue pagine, infatti, tu, Eleonora, racconti di te e delle esperienze che ti hanno inaspettatamente cambiato la vita. Quanto è stato doloroso mettersi così a nudo, rivivendo quegli anni e, soprattutto, quella notte? E quanto, per te, Debora, è stato difficile raccogliere le sue emozioni e farle tue?
E: «Devo ammettere che è stato molto difficile all’inizio ma, grazie al passare del tempo e grazie alle terapie, sono riuscita a parlarne piano piano e più parlo più diventa facile. Inoltre, il mio lavoro (faccio la videomaker) aiuta molto ad aprirmi con la gente. Infatti, ho conosciuto Debora sul set».
D: «Eleonora mi ha regalato un sogno ma anche una doppia sfida: scrivere un libro e rendere omaggio alla sua storia e a quella di tanti ragazzi. Per me è stato un lavoro emotivo più che un lavoro creativo. Quando è arrivata la stesura delle ultime due parti, Lavoro e Ricostruzione, ho iniziato a parlare da sola davanti al computer. Mi sono immaginata un racconto teatrale, il linguaggio che conosco e uso nel lavoro, ed è così che mi sono ritrovata a piangere sopra la tastiera. Più volte le ho mandato un messaggio al termine di un capitolo in cui le dicevo sono distrutta, ho finito il capitolo e sto piangendo, ed è stato un po’ assurdo perché ho passato lunghi pomeriggi ad ascoltare le sue parole e i suoi racconti, a leggere testimonianze, ma è solo dopo aver fatto tesoro di tutta la sua storia e dopo averla fatta anche mia che ho liberato tutte le emozioni».
Come nasce questa vostra amicizia e, dunque, collaborazione?
D: «Ci siamo conosciute circa cinque anni fa su un set pubblicitario. Elly era dietro la telecamera, silenziosa e professionale. Da quel giorno abbiamo iniziato a vederci per altri progetti, abbiamo iniziato a frequentarci, poi due anni fa è arrivata la proposta».
Su L’Aquila e sulla notte del 6 aprile del 2009, negli anni, si è detto e scritto tanto. Il vostro racconto, però, si distingue da molti altri per la spontaneità delle immagini e dei sentimenti trasmessi, tanto sinceri quanto privi di una ricerca forzata di pietas. Credete sia questo il segreto di quell’empatia naturale che le vostre parole sono in grado di generare nel lettore?
D: «Sinceramente non so se ci sia un segreto. Abbiamo deciso di narrare una storia, uno spaccato di vita quotidiana, la normalità che al giorno d’oggi a volte non viene apprezzata del tutto. Le prime pagine raccontano la vita di una studentessa fuori sede, i problemi adolescenziali di crescita che abbiamo condiviso tutti. Questa normalità è la chiave della storia perché improvvisamente scompare, per 42 ore, ed Elly per riaverla indietro ci metterà anni. Abbiamo cercato di trasmettere con semplicità il dolore, e semplicità vuol dire far parlare il lettore. Se tutto questo dovesse succedere a te che stai leggendo, come lo vivresti? Per questo molte parti emotivamente importanti sono scritte in prima persona. Sono dei monologhi in cui ognuno di noi si può ritrovare. Qualcuno la vive dal punto di vista della madre, altri si sentono vicini a Eleonora o alle sue amiche. È il primo libro e la semplicità è stata il nostro mezzo per poterlo scrivere. Se c’è un segreto, forse è questo».
Perché la scelta di riportare su carta un estratto di vita pre e post terremoto, anziché un faro puntato unicamente sulle ore che hanno trasformato la quotidianità di moltissime persone?
E: «Perché volevo far conoscere la nostra vita prima del terremoto. Eravamo spensierati e semplici, con l’intenzione di costruire il nostro futuro e realizzare i nostri sogni. Questa era la nostra unica preoccupazione. Il terremoto ha distrutto tutto questo, quella spensieratezza non esiste più. Alcuni non ci sono più e i sopravvissuti, anche quelli che non si sono fatti male, hanno fatto molta fatica a ricostruirsi. Ha lasciato un grande segno in noi che non se ne andrà mai».
Cos’è L’Aquila oggi? Eleonora, ci sei mai più tornata?
E: «L’Aquila si sta ricostruendo e sta ricucendo le ferite profonde lasciate dal terremoto. Sono tornata per delle interviste i primi di aprile e finalmente ho visto un po’ di vita che non vedevo da molto tempo. Gli aquilani hanno una grande forza e mi ha fatto molto piacere vederli così pieni di vita. La prima volta che sono ritornata dopo il terremoto è stato dopo nove mesi perché volevo dare un ultimo saluto alla città e rivedere i miei amici».
Spesso e in modo non veritiero, si è parlato di ricostruzione del capoluogo abruzzese. Molto raramente, invece, si è parlato di ricostruzione morale e individuale di chi nel 2009 era a L’Aquila o ha perso un suo caro tra le macerie. È nata da qui la vostra necessità di denunciare la perdita ma, soprattutto, di annunciare la possibile rinascita?
D: «Io ho conosciuto Eleonora dopo il terremoto e per me lei è la prova vivente di quanto nulla possa fermare i nostri sogni. È importante parlare di questo per ricordare le persone che non hanno avuto la possibilità di ricominciare. Ci sono altri ragazzi che hanno vissuto l’esperienza del terremoto e delle macerie, ci sono tante storie e tutte si assomigliano. Rassicurazioni, pensieri e convinzioni erano gli stessi, ma ci sono anche ragazzi che non hanno ricostruito più nulla. Per far questo non c’era bisogno di puntare il dito contro qualcuno, ma bisognava ricordare e raccontare. Abbiamo cercato di omaggiare tutti, chi in quel momento si sentiva impotente, chi l’ha vissuta sulla propria pelle e chi ha lavorato ininterrottamente per far tornare la luce nella vita di questi giovani».
Eleonora, il dolore è certamente parte della tua vita. Dalla tua testimonianza, però, si evince uno straordinario coraggio nel saperlo gestire e venirne fuori. Ma quanto ti ha cambiato quel tempo sospeso al centro della Terra?
E: «Tutto e totalmente. Prima del terremoto ero praticamente scappata di casa per poter andare a studiare a L’Aquila per costruirmi una vita mia, ero un po’ egocentrica e tutta determinata a raggiungere l’obiettivo. In quelle 42 ore ho rivissuto e rivisto tutta la mia vita come un film, lì ho capito che se mi fossi salvata, sarei tornata subito dalla mia famiglia. Volevo rivederli anche solo un per secondo. Quelle ore hanno cambiato tutto il mio punto vista, come vedevo la vita. Prima pensavo solo al futuro e ora penso a vivere al massimo momento per momento. Apprezzo molto questi attimi e sono molto fortunata anche a poter respirare l’aria».
Debora, tu quella notte non eri a L’Aquila, eppure sei stata bravissima nel raccontarla con un sapiente montaggio di personaggi e prospettive che si alternano sulla scena. Qualcuno in quelle ore ha persino riso, qual è, invece, il tuo ricordo legato al 6 aprile 2009?
«I miei ricordi del 6 aprile? Sono tutti legati a questi due anni di lavoro insieme. Paradossalmente questa data è diventata importante per me solo dieci anni dopo, non mi vergogno ad ammettere che il 6 aprile 2009 io, una ragazzina di diciotto anni, guardavo la televisione basita e senza parole. Guardavo il telegiornale come se fosse un film al cinema, consapevole che una volta finito me ne sarei tornata al sicuro alla mia vita. Ricordo di aver scritto su Fotolog, il vecchio Instagram, un lunghissimo pensiero in cui ammettevo di sentirmi fortunata. Ora, essere così dentro a questa tragedia, seppur con un certo ritardo, mi fa capire davvero che non ci sarà mai un troppo tardi per poter ricordare».
Dall’uscita del libro, siete spesso in giro a raccontarne le pagine. Com’è la risposta di pubblico nel corso delle presentazioni? State riscontrando un interesse ancora vivo per una vicenda tanto traumatica quanto strumentalizzata, come quella che ha coinvolto L’Aquila?
D: «Il pubblico di curiosi e di lettori è un pubblico attento. Ascolta ogni parola con rispetto perché è consapevole di avere davanti la protagonista di questa storia, che non è fatta solo di inchiostro su carta, ma è carne e sogni ed è lì che sorride. C’è silenzio ma ci sono anche risate perché noi due insieme riusciamo a essere serie per un tempo davvero limitato. In questi anni si è parlato tanto del terremoto de L’Aquila, ma si è parlato della burocrazia, degli scandali e non si è parlato più di vite. Dopo il 6 aprile del 2009, l’Italia è stata colpita da altri terremoti, altre tragedie e ci siamo rese conto che questa storia è universale, che tante persone si sono sentite coinvolte, magari in modo completamente diverso, ma comunque umano».
E: «Spero con tutto il cuore che questo libro possa cambiare qualcosa, in maniera tale da far sì che certi errori non si ripresentino ancora in futuro. Fino a ora, il pubblico ha capito e percepito il messaggio che abbiamo lasciato con il libro».
Dove volete e credete vi porterà il movimento dei vostri sogni?
D: «Quello che voglio è che questa storia continui a darmi coraggio per fare quello che amo. Ho costruito una piccola libreria gratuita in giardino, ho in archivio mille storie che voglio mostrare e voglio continuare a recitare. Voglio continuare a raccontare, con la voce, il corpo e la carta. Una signora un giorno mi regalò un libro e dentro scrisse, citando Stefano Benni, Ci vuole un gran fisico per correre dietro i sogni. Ecco, io sono diventata una maratoneta…»
E: «Il movimento dei sogni ha già fatto tanto per me, mi ha permesso di alleggerire e condividere un grande peso. Ora mi sento un pochino più leggera. Già questo mi basta. Da anni è in progetto un lungometraggio sulla storia, ma vedremo, siamo alla ricerca delle persone giuste».