Da sempre regina dei lungometraggi animati, la Disney viaggia ormai di pari passo con la Pixar, la quale ha saputo in qualche modo svecchiare la major collega con le rivoluzionarie animazioni digitali e tematiche molto più coraggiose e profonde. Coadiuvando la magia della tradizione con la potenza dell’innovazione, la Pixar è stata in grado di diversificare personaggi abbastanza standardizzati, raccontarci nuovi mondi e nuovi punti di vista, spesso neanche così facili da proporre a un pubblico di bambini.
Già nel 1995, con il primo lungometraggio d’animazione realizzato completamente in CGI, Toy Story, si è fatta in un certo senso la storia. Nel tempo abbiamo imparato con Inside Out quanto sia importante accogliere le emozioni considerate negative invece di reprimerle, o l’elaborazione del lutto con Coco, o cosa significhi davvero dare un senso, uno scopo, alla propria esistenza in Soul. Risate e commozione, leggerezza e riflessione. Questa è la loro vittoria.
L’aver abituato così bene lo spettatore è forse il motivo per cui le aspettative diventano sempre più alte – sebbene sia evidente che la Pixar non stia attraversando uno dei suoi periodi più felici – ed è anche per questo che Elemental, da poco uscito in sala, non ha convinto. O meglio, ha deluso.
Dietro c’è la firma di Peter Sohn, regista e doppiatore statunitense che aveva già diretto nel 2015 Il viaggio di Arlo, considerato il primo flop al botteghino di sempre dell’azienda. Con Elemental prosegue, purtroppo, questa maledizione, poiché il film è il secondo peggior debutto al cinema per un lungometraggio d’animazione Pixar. I motivi possono essere molteplici. Prima di tutto, le assenze e i problemi a seguito della pandemia. Va poi detto che la gente, le famiglie, preferiscono oramai risparmiare i soldi dei biglietti in sala se sanno che tanto il film a breve uscirà su Disney+, come già successo per altri prodotti distribuiti in contemporanea se non addirittura solo sulla piattaforma. Infine, il sapore di un qualcosa di decisamente già visto miscelato a una volontà di restare in una zona safe, di evitare di osare, cose che non fanno compiere al film quel guizzo che normalmente ci si aspetta da un prodotto Pixar. Un peccato, perché Elemental è davvero molto carino.
Salta all’occhio da subito il lavoro di world building di Element City, questa metropoli cosmopolita dove convivono al suo interno degli esseri antropomorfi composti dai quattro elementi: aria, acqua, terra, fuoco. Quest’ultimo, però, fa fatica a integrarsi, guardato con sospetto e ghettizzato in una sorta di quartiere fuochese. Con queste premesse, seguiamo la storia d’amore apparentemente impossibile tra Ember, una ragazza di fuoco, e Wade, un ragazzo d’acqua. È chiaro che dietro la storia romantica, i temi centrali sono altri: si parla di immigrazione, razzismo, pregiudizio, accettazione e integrazione sociale.
Lo stesso Sohn ha infatti dichiarato che la trama è in buona parte autobiografica: «I miei genitori sono immigrati negli Stati Uniti dalla Corea all’inizio degli anni Settanta, lì hanno aperto un negozio di alimentari nel Bronx. Eravamo una delle tante famiglie che si erano avventurate in una nuova terra con sogni e speranze, in un unico crocevia di culture, lingue e piccoli bellissimi quartieri. Questo è quello che mi ha portato a Elemental». Su ispirazione di cult come Indovina chi viene a cena o Il favoloso mondo di Amélie, il regista sembra dunque aver messo il cuore in questa storia e, nonostante i risultati, lo percepiamo.
Ember è una ragazza energica e costantemente intenta a non deludere le aspettative dei suoi genitori, in particolare di suo padre. Il suo destino sembra già scritto anche se nessuno mai le ha chiesto cosa vuole davvero. Nemmeno lei stessa. Deve inoltre affrontare il pregiudizio non solo da parte della società ma anche della famiglia, perché se nel tempo sei stato rifiutato finisci, a un certo punto, a rifiutare gli altri per autodifesa.
La Lumen è un palese esempio di famiglia asiatica molto legata alle proprie tradizioni, emigrata in una metropoli idilliaca ma al contempo ostile e ancorata in tanti preconcetti. Basti notare come, al loro arrivo in città, gli vengano modificati i nomi poiché troppo difficili da pronunciare. Oppure il modo in cui lo zio di Wade ci tiene a sottolineare come Ember parli benissimo, cosa che le farà rispondere sarcasticamente «pazzesco come essere madrelingua possa cambiarti la vita», suggerendo che ha l’accento di Element City perché è nata lì.
L’unico che sembra accorgersi dell’anima di Ember e del suo celato desiderio di emancipazione è Wade, ragazzo dal cuore d’oro, supportivo, spontaneo, la cui evoluzione nella trama, però, è pressoché assente e resta un personaggio positivo ma troppo bidimensionale. È chiaro che entrambi fanno riferimento a una coppia interrazziale. Hanno letteralmente paura a toccarsi, come se già sapessero che la loro relazione non produrrebbe nulla di buono. Interessante anche la caratterizzazione delle loro personalità: se Ember è impetuosa, impulsiva, propensa a scatti d’ira, Wade è sensibile, empatico, piange spesso ed è proprio questa sensibilità che, tra l’altro, sarà fondamentale in una precisa situazione di necessità. Scelta che porta a un ribaltamento degli stereotipi di genere, dove la rabbia è da sempre associata al maschile come sinonimo di virilità e la sensibilità è associata al femminile come sinonimo di debolezza.
Ember e Wade sono rispettivamente doppiati da Valentina Romani, attrice vista in serie tv come Skam e Mare Fuori, e dal conduttore e ballerino Stefano De Martino. Qui vogliamo spendere due parole. Sebbene siamo d’accordo nel portare avanti la battaglia “ridiamo il doppiaggio ai professionisti” (vedi l’esempio di Mahmood ne La Sirenetta), bisogna ammettere che De Martino è stato parecchio sorprendente per essere la sua esperienza prima, bravissimo anche a eliminare l’inflessione dialettale napoletana.
Molto buono anche il lato tecnico. La CGI e i colori sgargianti rendono il film visivamente di forte impatto e il lavoro di umanizzazione degli elementi, la fluidità dei liquidi, la dinamicità e iridescenza del fuoco, la vaporosità dell’aria non era affatto semplice. Menzione onorevole alla colonna sonora di Thomas Newman, specialmente al delicato brano originale Steal The Show, cantato da Lauv, il cui adattamento italiano di Mr.Rain, Per sempre ci sarò, resta all’altezza.
Elemental è, in sostanza, un racconto di emancipazione, scoperta di sé e lotta al pregiudizio travestito da storia romantica. Tramite un umorismo ben calibrato, è in grado di commuovere e coinvolgere, insegnando ai piccini (e pure agli adulti, eh!) che la diversità esiste, siamo tutti diversi, ma non c’è nulla che, tramite la conoscenza, il rispetto e l’amore, non possa coesistere.
Tutti ottimi messaggi e buoni sentimenti che però non bastano a far brillare il film, troppo simile a lungometraggi di gran lunga migliori come Inside Out o Zootropolis. Non basta neppure (fare finta di) inserire il solito elemento LGBTQIA+ (apprezziamo comunque lo sforzo, nel 2023), quando vengono nominate la sorella di Wade e la sua ragazza, passate tipo saetta sullo schermo che quasi uno neanche se ne accorge. Nel complesso consigliamo ugualmente di recarsi in sala e sostenere Elemental, che resta un film godibile e ben fatto. Non soddisferà gli standard progressisti a cui la Pixar ci ha a lungo abituati ma saprà comunque emozionare.